27 Gennaio 2016

C’era una volta un re

La Zona d’Interesse
di Martin Amis

ZonaInteresseAmisLa neve è grigia. Poi marrone.
La matematica routinariamente scandisce la liturgia di una folle logica nichilistica dove le camere a gas e i forni crematori sono soltanto epifenomeni.
Ci sono il Prato di Primavera, la Piccola Casetta Bruna, la Cosmologia Glaciale, la rampa.
C’è il Project, lo Zahlappell, la Buna-Werke, la IG Farben. Ci sono le Ackion, conniventi con il calendario di Goebbels nel cadenzare le feste religiose battezzando Yom Kippur e Rosh Hashana come i “giorni terribili”.
C’è il silenzio assordante del tempo dei ragazzi muti e il sordo clangore delle pinze, delle mazzuole, dei secchi, delle siviere e delle macine.
C’è “quel che è accaduto in tutto il suo orrore, la sua devastazione e la sua sanguinaria opacità.”
Ma non c’è un perché. Hier ist kein Warum (Qui non c’è perché).
C’è uno specchio che non riflette l’immagine bensì l’anima, rivelatore di se stessi e dal quale l’occhio fatica a distogliersi, “Chi sei tu? Non lo sai. Poi arrivi nella Zona d’Interesse e lei ti dice chi sei.”
È il Kat Zet, La Zona d’Interesse (Einaudi) di Martin Amis, uno dei massimi e più controversi scrittori anglosassoni, in una fedele ricostruzione dell’ethos e della trama della vita quotidiana di Auschwitz e del Terzo Reich. Un inedito esempio di letteratura concentrazionaria impavidamente interpretata in chiave grottesca e caricaturale, cifra stilistica di Amis.
E in quello specchio il suo occhio chirurgico, nell’intento di saldare alcuni debiti con il meso e con il micro, indaga la quotidianità dell’odio e dell’orrore, apparentemente edulcorata da un effluvio amoroso (potenziale forza redentrice), quasi accessorio, considerate le atrocità contestuali, ma essenziale anche nel documentare la normalità nell’assurdità e nell’irrazionalità. “Che cosa possono fare se non aumentare il grado di follia?”, si domanda, infatti, una delle tre voci narranti, tre esistenze ridotte ad eco sfinite (“perché anche i tedeschi hanno sperimentato la morte dell’anima. Non potrebbe essere altrimenti”), cui è affidata questa seconda incursione nell’Olocausto, la prima nel 1991 con La freccia del tempo.

Ha la sensazione quasi costante di vivere dentro il perimetro di un immenso eppure brulicante manicomio, Angelus “Golo” Thomsen, nazista mediocre e ufficiale di collegamento fra l’industria bellica e il Reich. Nipote del segretario personale di Hitler (citato, quest’ultimo, scortato di virgolette apparendo leggermente più gestibile, soltanto nella postfazione, quarta voce, quella autoriale, facente parte a pieno titolo dell’opera), è l’esperto della “meteorologia della prima vista”, qui manifesta per la moglie dello spietato Her Kommandant del campo, Paul Doll. A questi l’onore di bersaglio privilegiato della satira da elevarsi a personaggio più macchiettistico (“In tutta franchezza, sono un tantino infastidito dai miei occhi neri”), e incarnazione maxima dell’assurdo del regime. Egli è il Vecchio Beone dall’eloquio verboso e delirante e dal vaniloquio gergale. Illuminato dalla lettura del Mein Kampf, è il sadico le cui barbarie perpetrate fungono da fonte di divertimento vicario. Alla formula fiabesca (antitetica ma in ciò esacerbante il contestuale brutale realismo), in uno dei passaggi più rivelatori del romanzo, è affidato l’esordio della terza voce narrante. Szmul è il “Sonder”. Geloso dei propri occhi perché “disabitati”, laconico, quasi ieratico, in lotta con la pazzia e l’abitudine, egli è il testimone di “un’esplorazione del bestiale metodica, pedante e letterale”. Ed è la vittima, nonostante sia il capo del Sonderkommando, la Squadra Speciale che “assiste” i nazisti nell’opera di sterminio, l’invenzione definita come il delitto più demoniaco del Nazionalsocialismo teso ad annientare anche la “consapevolezza e la consolazione dell’innocenza”.
Avvicendandosi – lancette replicanti la macabra routine della zona d’interesse (nella fattispecie il perimetro esterno al campo) – ogni voce è detrattrice e contraltare di quella precedente e disvelatrice di omessi antefatti mentre dubbi e lacerti di umanità come baluginano così immantinente si dileguano in alcune delle loro corde.

“Se quella che stiamo facendo è una cosa buona, perché ha un odore così pervicacemente cattivo?
Sulla rampa, la sera, perché avvertiamo quell’incontrovertibile bisogno di ubriacarci brutalmente?
Perché i pazzi, e solo i pazzi, qui sembrano trovarsi bene?
Perché facciamo diventare marrone la neve?”

In prossimità del filo spinato – al pari degli altri genocidi che hanno insanguinato la storia – , come Primo Levi insegna, non c’è un perché: è desiderabile che quelle parole ed opere non siano più comprensibili.
A tale incomprensione La Zona d’Interesse di Martin Amis, pertanto, aderisce, e, suggerendo cautamente che “nell’inflessibilità e nell’elettrica severità con cui il Terzo Reich respinge qualsiasi tentativo di contatto consiste la sua unicità”, nell’astenersi dal cercare risposte egli conferma un rifiuto epistemologico ed un eureka negativo.

C’era una volta un re …
C’era “il latte nero”, c’erano coloro che “giocavano con i serpenti e che scrivevano ai capelli d’oro”.

 

Recensioni ,
One Comment
  1. […] dell’umanità. La prima incursione di Amis nella Shoah – la seconda avverrà nel 2014 con La zona d’interesse – è disorientante e vertiginosa non solo per il lettore, ma anche per il protagonista stesso […]

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