14 Marzo 2021

La parola ai giovani

Incontro con Marco Vincenzo Ambrosi

Musicista, insegnante di italiano, di storia e di italiano L2 all’Istituto Tecnico e Professionale L. Nobili di Reggio Emilia, MARCO VINCENZO AMBROSI ha dato vita ad un progetto corale benefico finalizzato alla sensibilizzazione e all’integrazione.
L’ALTRO allo SPECCHIO, edito da Compagnia editoriale Aliberti, raccoglie le esperienze, le sensazioni, le emozioni, i timori, di giovani stranieri giunti nella città emiliana.
I loro sentire, filtrati dalle parole degli scrittori cui sono stati affidati, sono divenuti racconti.
Oltre che ai giovani, la parola, dunque, anche al professor Ambrosi.

Professor Ambrosi, come nasce il progetto L’altro allo specchio?
Durante uno dei corsi di italiano L2 che tengo all’Istituto Nobili di Reggio Emilia, tre anni fa, parlando con ragazzi di diverse provenienze, filippini, ghanesi, indiani, cinesi, nigeriani, è emerso come molti di loro avessero scelto questa scuola quasi per caso e come qualcuno pensasse ad un futuro lavorativo un po’ stonante con l’indirizzo intrapreso. Ho provato, allora, ad immaginarmi come sarebbe stata la loro vita. Ho intervistato venticinque studenti, ponendo ad ognuno di loro le stesse domande in merito alle origini, al viaggio dei genitori che li avevano preceduti, alla motivazione della partenza e, soprattutto, ai loro sogni futuri ed ho affidato il risultato degli incontri ad altrettanti scrittori con il compito di trarne ispirazione per dei racconti. Racconti che in seguito avrei letto agli studenti sottoforma di narrazione per fargli capire come la letteratura possa far immaginare delle vite anche realizzabili.

Loquaci, titubanti? Come hanno affrontato i ragazzi e le ragazze le interviste?
Ho un buon rapporto con loro, è stato molto semplice e naturale raccontarsi. Tra l’altro io sono l’unico a conoscere le identità dei protagonisti delle storie. Abbiamo deciso, infatti, di tenerle anonime, utilizzando degli pseudonimi, anche per la delicatezza dell’età facilmente esposta alla derisione anche delle cose belle.

Qual è il principale motivo del loro arrivo in Italia?
Il ricongiungimento familiare. Le storie raccolte non parlano né di traversate né di barconi. Per quanto sia fondamentale rimarcare quotidianamente l’importanza di aiutare chi fugge da fame, guerra e povertà, i ragazzi di L’altro allo specchio sono tutti arrivati in aereo per ricongiungersi con le proprie famiglie già da tempo in Italia.

Cos’ha visto in questi ragazzi?
Mi preme sottolineare che questo non è un libro su studenti stranieri. In loro ho intravisto un bisogno speciale, una “debolezza” che urgeva essere raccontata. Ai miei occhi sono semplicemente degli adolescenti che, al pari di altre persone negli anni Cinquanta, si trovano dinnanzi all’ostacolo della barriera linguistica e che, dunque, necessitano di attenzione in tal senso. Talvolta noi li chiamiamo stranieri, in quanto in effetti lo sono, ma preferisco pensare che straniera sia la terra in cui sono arrivati.

Dialogando con i ragazzi quali sono le speranze, i sogni emersi?
La maggior parte di loro non ha sogni così grandi, così altisonanti, e sono lontani da quelli di altri loro coetanei il cui desiderio principale oggi è fare soldi, un fenomeno, questo, veramente distante da tutte le generazioni precedenti. I ragazzi intervistati esprimono più il desiderio di un’affermazione nel lavoro, come approdo all’indipendenza.

I suoi studenti hanno letto il libro?
Essendo, ovviamente, stato un anno particolare, la pubblicazione del libro è stata posticipata. Tra tante difficoltà per farglielo pervenire, sì, alcuni di loro lo hanno letto. Sto cercando di organizzare degli incontri per sapere se si siano riconosciuti nelle storie, se abbiano qualcosa da dire.

Inoltre, attraverso una sorta di concorso interno, sono state selezionate tre studentesse che hanno firmato altrettanti racconti del libro. Ispirate alle storie delle loro coetanee, le hanno sviluppate secondo la propria visione, venendo a contatto con situazioni un po’ lontane dal proprio vissuto.

La barriera linguistica è il primo ostacolo per l’integrazione in una nuova realtà, che attraversa relazioni da vivere e significati multidirezionali da comprendere. Pensa che Reggio Emilia sia abbastanza inclusiva? Che stia facendo abbastanza in tema di integrazione?
Ritengo che a Reggio si stia facendo molto. Lavorando nella rete delle scuole, incontro spesso il Comune, alquanto attento sul tema. Certo, si può sempre fare di più. L’ultimo decreto sicurezza prevedeva limitazioni all’organizzazione di corsi di italiano non per studenti, ma per persone che arrivavano qui con la conseguente esigenza di apprendere la lingua.

Questo volume vuole, quindi, sensibilizzare tutti, compresa la scuola che talvolta è poco attenta, sul tema del percorso di apprendimento dell’italiano per una totale integrazione di giovani che hanno raggiunto le proprie famiglie già qui stabili. Li si potranno vedere seduti accanto ad amici ed amiche, ma sino a quando non parleranno l’italiano non saranno mai veramente integrati.

C’è una storia che l’ha maggiormente colpita?
Tutte presentano aspetti che mi hanno colpito. Come la prima parola italiana memorizzata da uno studente appena sbarcato dall’aereo: “uscita“. E la sua inconsapevolezza di aver espresso un pensiero molto poetico. O come il protagonista del racconto da me firmato che mi spiega la differenza tra il ballo europeo e quello africano, dandomene anche dimostrazione. O come, ancora, un altro studente che mi ha detto “Quando cammino per la città con la tuta della mia Società sportiva mi sento un giocatore di questa società, quando invece non la indosso, mi sento un negro qualsiasi“. Tutte cose che questi ragazzi vivono sulla propria pelle.

Massimo Ghiacci nel racconto La ballata di Kareem Abdou cita il Baobab, pianta simbolo senegalese, dagli enormi rami simili a radici capovolte proiettate verso il cielo. Le radici rappresentano le ali con cui il protagonista si è aperto al mondo “saltando sempre più lontano”. Dice infatti: “Vorrei riuscire a dare ai miei figli il desiderio di andare lontano, ma con la consapevolezza e la fierezza di amarsi per ciò che si è alla partenza”. Il Baobab, quindi, come metafora della forza per affrontare la vita con tutte le sue avversità, sempre ben consci della propria origine.
Ha riscontrato questa forza delle radici nelle parole dei suoi studenti?
Percepisco che a maggiore complessità corrisponde un maggiore attaccamento alla famiglia, alle radici, al luogo di provenienza, all’identità. Quando, invece, tutto è bello e pronto, come spesso accade nella nostra società, globalizzata e consumistica, non si sente più bisogno di pensare alle radici che ormai non esistono più.

Spesso questi ragazzi arrivano con il rischio di essere fagocitati da un mondo diverso e non sempre per loro è un bene. In base anche alla mia esperienza di insegnante, che esercito ormai da 15 anni, penso che i giovani siano sempre uguali, cambiano gli strumenti attorno a loro, ma le sensazioni, i sentimenti nell’animo umano sono i medesimi da millenni. Il problema oggi è l’eccessiva attenzione per le cose troppo materiali a scapito di quelle spirituali. E questi ragazzi, che arrivano da terre lontane, talvolta sono più sensibili alle seconde, forse perché forti delle tradizioni che gli sono state raccontate.

La sua raccolta di racconti titola L’altro allo specchio? Perché questo titolo? Chi è l’altro?
Il titolo è mutuato da una frase pronunciata da Andrea Camilleri durante un’intervista: Non sei altro che te stesso quando  ti guardi allo specchio, e c’è un rimando anche a Todorof e ad altri filosofi secondo cui l’altro rappresenta un confronto che dobbiamo sempre fare per capire anche noi stessi.

Il tema identitario è ben presente, dunque.
Certamente. Il discorso dell’identità è molto forte. Perché il libro è, sì, sui ragazzi stranieri, in quanto arrivati da un altro Paese, ma per me, ripeto, sono adolescenti che devono costruire la propria identità. Molto probabilmente avremmo potuto scrivere questo testo parlando di studenti che, come me, dalla Calabria sono arrivati a Reggio Emilia. Il messaggio del titolo è che ognuno di noi si può specchiare nell’altro e trovare qualcosa di se stesso.

Oltre ad insegnare, lei è anche un musicista molto impegnato. Che musica suonano le pagine di L’altro allo specchio?
Suonano una colonna sonora tra la wart music e una musica più urbana, quindi elettronica, con predominanti contaminazioni di strumenti acustici provenienti dalle varie parti del mondo. Un crossover di generi musicali.

I ragazzi di origine straniera sono stati, forse, più penalizzati dalla didattica a distanza?
La distanza ha semplicemente enfatizzato difficoltà preesistenti. Chi aveva problemi in alcuni casi ne ha riscontrati di più, altri no. Stando a distanza sono state vinte delle timidezze, ad esempio. All’inizio, tuttavia, soprattutto l’hanno scorso qualcosa non ha funzionato. Quest’anno c’è stato un grande lavoro organizzativo da parte delle scuole, non da parte del Ministero, del Governo. Si sono impegnate veramente tanto, indicendo bandi, fornendo strumenti. Tutti gli insegnanti hanno lavorato tantissimo per avvicinare sempre più gli studenti. Negli istituti professionali e tecnici, inoltre, l’attività di laboratorio si è sempre svolta in presenza. Però, sì, dove sono presenti delle privazioni culturali ed economiche le difficoltà sono state maggiori.

Una sola domanda relativa al nuovo Governo. È d’accordo con la proposta di recuperare gli studi durante il mese di giugno? Proposta, in verità, già avanzata dal precedente Ministro dell’Istruzione.
Posto il fatto che i corsi di recupero ci sono sempre stati, anche prima della didattica a distanza, e spesso disertati dagli studenti, la scuola dovrebbe essere aperta per chi ne ha effettivo bisogno. Non è corretto decretare la frequenza indiscriminata, perché non tutti nel Paese hanno incontrato le stesse difficoltà. Sarebbe un’ingiustizia sia verso gli studenti che hanno studiato e terminato il programma sia verso gli insegnati che hanno lavorato indefessamente. Penso che spesso si parli solo per propaganda e questo è un grosso male della scuola.

Quindi la scuola ha bisogno di?
Di persone competenti che vivono la scuola e che realizzino riforme in favore dei ragazzi, ma occorre ascoltare gli insegnanti, i genitori e, soprattutto, non incolpare sempre solo la scuola, perché molto probabilmente le vere mancanze risiedono anche altrove. Sono nella famiglia, sono nella mancanza, entro i quartieri, di parrocchie, di sedi di partito, di luoghi di comunità. Per non parlare dei paesi. Oggi, a differenza di un tempo, mancano luoghi di aggregazione. La scuola è una cosa di tutti e dovrebbe essere valorizzata non facendo propaganda ma lavorando insieme.

Anche alla luce di sempre più frequenti rigurgiti filo nazisti e fascisti, di intolleranze estremiste, di violenza gratuita, potremo mai considerarci tutti, come auspica Dacia Maraini nella prefazione, Cittadini del mondo, considerando le diversità come un grande regalo per poter allargare i nostri orizzonti?
In base a quanto ci raccontano e a quanto vediamo è difficile pensarlo. Tuttavia lo siamo stati cittadini del mondo. Le civiltà precedenti non avevano tutte le distinzioni che, invece, noi abbiamo creato. Come noi siamo stati capaci di inventare i confini, le nazioni, i nazionalismi,  potremmo anche, forse, un giorno capire come poter stare tutti insieme, come umanità.

Affinché si realizzi ciò che auspica Dacia Maraini occorre lavorare molto sull’educazione, non imponendo le proprie idee. Educare partendo dall’idea che discendiamo tutti dalla stessa specie umana, cosa che spieghiamo a scuola sin dalle elementari. L’homo sapiens è nato in Africa, dunque, in sintesi, siamo tutti africani. Perché dovrebbero esserci differenze? Ovviamente le differenze si sono poi generate. Si tratta di una semplificazione un po’ banale, questa, esemplificativa, tuttavia, dell’importanza dell’educazione dei cittadini all’accoglienza e all’integrazione. Sino a quando i nostri politici e, in generale, nel mondo aizzano le folle  per andare contro e non verso gli altri è ovvio che le cose andranno male.

Esercizio di narrativa, azione di sensibilizzazione, L’altro allo specchio è anche un progetto dal risvolto benefico.
Esattamente. Tutto il ricavato delle vendite del volume è destinato a finanziare la formazione di corsi di italiano, all’Istituto Nobili di Reggio Emilia, rivolti a ragazzi neo arrivati in Italia. Trovare fondi ulteriori per tenere questi corsi non è mai cosa facile, non essendo sempre finanziati dal Ministero. Spesso spetta alle scuole adoperarsi per sopperire alle lacune.

Professor Ambrosi, nuovi progetti?
Ne sto valutando diversi. Uno da realizzare insieme con Lorenzo Menini, il fumettista autore della copertina di L’altro allo specchio. Ma più fattibile, nel breve periodo, sarà un progetto culturale relativo agli studenti che in questo periodo rimangono indietro non tanto per mancanze economiche quanto mancanze culturali della nostra società. Ritengo che laddove ci sia aridità culturale nelle famiglie, nell’ambiente di provenienza, si emerga più difficilmente.
Un tempo, secondo il sistema dell’ascensore sociale, era possibile che il figlio del contadino o dell’operaio diventasse dottore. Non so se oggi sia ancora possibile.

«La storia della mia famiglia, la forza dei miei genitori,
la fame e il coraggio, i sacrifici e l’amore.
Sempre dentro di me.
Vorrei riuscire a dare ai miei figli il desiderio di andare lontano,
ma con la consapevolezza e la fierezza di amarsi per ciò che si è alla partenza»
da La ballata di Kareem Abdou
di Massimo Ghiacci
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