È nata Reggio Emilia nel 1984, ma dal 1990 la sua casa è Milano.
Guida una vespa, ascolta T.Rex., beve Coca Cola, mangia gli spaghetti come una signora, indossa strisce e grandi occhiali rotondi. Da un mostro dagli occhi verdi di una certa età è stata definita una “millennial stronza”.
La velocità di pensiero e di colore le appartengono applicandoli con padronanza in diversi campi artistici.
È Olimpia Zagnoli – OZ – la creativa che ha conquistato gli Stati Uniti ed ora in mostra a Reggio Emilia con “CALEIDOSCOPICA – Il mondo illustrato di Olimpia Zagnoli“, gli ultimi suoi dieci anni di attività.
«Porto con me un quaderno non troppo piccolo e non troppo grande che mi consenta di appuntare un pensiero, tracciare il profilo di una tazzina sul tavolino di un bar, disegnare quattro linee all’interno delle quali sviluppare un progetto.
Spesso la copertina del quaderno è nera, sulla quale attacco un adesivo o lascio una traccia per poterli distinguere l’uno dall’altro. Tra le pagine si accumulano stralci di conversazioni telefoniche, ritratti di persone mai conosciute, liste della spesa, mani che reggono oggetti, calcoli matematici senza soluzione e bustine di zucchero vuote che creano spessore e disturbano la fluidità del tratto.
Il quaderno è lo spazio all’interno del quale succedono le cose, è il tavolo di lavoro, dove il pensiero astratto incontra per la prima volta la sua forma imprecisa, un rifugio quasi sacro illuminato da un evidenziatore rosa fluorescente.»
È molto singolare la biografia sulla tua pagina web. “Disegna come un polpo ambidestro”. Cosa ti ha portato al primo schizzo, alla prima macchia di colore sul foglio?
E come, poi, quell’atto si è evoluto nella tua professione?
La biografia è stata scritta dalla mia amica e artista Laurie Rosenwald che si è divertita nel descrivermi. Ho cominciato come molti bambini e bambine utilizzando il disegno come forma di comunicazione e poi, semplicemente, non ho mai smesso.
La ricerca artistica, nella quale sei sempre impegnata, cosa non ha ancora raccontato? Cosa vorrebbe raccontare?
Tra i territori che ho esplorato negli ultimi anni, forse quello che al momento mi incuriosisce maggiormente è il rapporto tra il mio lavoro e lo spazio, inteso come spazio sulla pagina, ma anche come spazio aperto, spazio pubblico. Mi piacerebbe approfondire questo aspetto.
La tua arte talvolta sembra guardare stilisticamente al passato…
Molti dei miei riferimenti culturali vengono dal passato, inevitabilmente. Ascolto molta musica prodotta tra gli anni ’50 e gli anni ’70 del Novecento, molti dei miei artisti e artiste preferite si collocano nella prima metà del secolo scorso ed io sono cresciuta negli anni ’90. Sicuramente il mio imprinting è novecentesco, mi auguro, tuttavia, che il mio lavoro parli un linguaggio comprensibile anche per chi è nato nel 2000.
La tua musa costante è la curiosità. E secondo un detto – superato e sessista – si dice sia femmina, sia donna. Come donne sono, spesso, i soggetti delle tue opere. Come mai questa scelta?
Alcune opere sembrano, inoltre, ispirate alla tua figura…
La realtà che vivo è naturalmente filtrata dalla mia esperienza personale, che per caso coincide con il fatto che io sia una donna con i capelli ricci che vive in una società occidentale. Il punto di vista attraverso il quale guardo il mondo è quello, non credo sia bizzarro che i soggetti delle mie opere assomiglino alle donne che mi circondano o talvolta a me stessa.
So che ami leggere e che trai tuoi autori preferiti figura Georges Perec con “La vita, istruzioni per l’uso”. In questo geniale romanzo lo scrittore francese crea un’opera-puzzle, fatta di molteplicità e in cui mostra come “un uomo non sia mai un’isola”: l’interconnessione tra i diversi elementi dell’insieme e la loro relazione con quest’ultimo determina, infatti, la loro esistenza.
C’è una sorta di assonanza con Caleidoscopica dove hai adottato un principio di associazione, un gioco di domino…
Sì, sia nel libro “Caleidoscopica” sia nella mostra omonima, non volevo raggruppare le illustrazioni per temi o per rigide categorie, così ho lavorato insieme con la curatrice Melania Gazzotti per costruire un percorso più libero che parte da un’immagine e ne associa subito dopo un’altra e così via. Proprio come un domino. Le associazioni nascono per colore, per tematiche, per suggestione o per forma.
Insieme con tuo padre hai dato vita ad una linea di oggetti sotto il brand Clodomiro. Nel palazzo parigino a scacchiera de “La vita, istruzioni per l’uso”, i cui interni sono descritti da Perec con chirurgica dovizia di particolari, ricordi un oggetto che ti ha colpita?
Se dovessi fare un’associazione tra gli oggetti di Perec e quelli di Clodomiro, quello che ricorderei è il nostro vaso “Nudo”, l’ultimo arrivato nella famiglia Clodomiro. Un vaso in ceramica che ricorda la forma di una persona nuda che riposa su un prato, galleggia sull’acqua o danza a casa da sola.
Tra i tuoi numerosi ed eterogenei lavori si annovera anche l’illustrazione di libri per bambini. Per farlo occorre avere sempre uno sguardo un po’ infantile (nell’accezione positiva del termine, intendo)?
Io amo relazionarmi con i bambini e le bambine, ma non credo che per fare un libro per loro sia necessario avere uno sguardo infantile. Forse è proprio il contrario, bisogna trattare i lettori e le lettrici con lo stesso rispetto e attenzione che avremmo di un pubblico più adulto, rispettando naturalmente le tempistiche evolutive, ma non trascurando gli aspetti umani.
La tua mostra è affiancata dal progetto Capriole di pensieri che ha coinvolto bambine e bambini delle scuole e dei nidi d’Infanzia di Reggio. Com’è stata questa esperienza? Com’è stato assistere o vedere le tue opere reinterpretate da occhi “altri”?
Hai incontrato questi piccoli neofiti artisti?
Ho desiderato sin da subito coinvolgere Reggio Children perché sono molto affezionata al tempo trascorso nel mio asilo di Reggio Emilia e credo che per me abbia costituito una grande esperienza creativa che ancora ricordo nitidamente. Ho incontrato gli atelieristi, gli educatori e i pedagogisti degli asili di Reggio ai quali ho raccontato il mio lavoro, alcuni dei temi e delle forme ricorrenti, il rapporto con il colore etc… e loro, con questi elementi, hanno costruito un percorso da fare con i bambini e le bambine degli asili. Solo al termine di questo processo, i bambini e le bambine visiteranno la mia mostra e vedranno per la prima volta i miei lavori.
Non vedo l’ora di sapere quali saranno le loro impressioni.
Ti firmi spesso con l’acronimo OZ. Trovi una sfumatura o anche qualcosa di più marcato in comune con qualcuno dei personaggi del racconto di Baum?
Mi piace molto il libro e anni fa ho anche illustrato un’edizione americana di “The Wonderful Wizard of OZ” ma, a parte l’omonimia, non sento di avere particolari connessioni con il mondo descritto da Baum.
Che consiglio daresti ai giovani aspiranti illustratori?
Sicuramente di non limitarsi al sapere disegnare bene. È una capacità innata che può essere coltivata ed è sicuramente un dono, ma per poter comunicare bisogna anche avere qualcosa da dire e quello lo si matura soltanto con lo studio, la ricerca e la curiosità.
L’esposizione Caleidoscopica è accompagnata dall’uscita di un volume omonimo, edito da Lazy Dog Press, che, oltre a proporre anche numerose tue opere non presenti qui a Reggio, riporta testi scritti da illustratori e artisti. Ognuno delinea un tuo inedito ritratto come quello – bellissimo – di Tamara Shopsin: “Penso a Olimpia Zagnoli come al bambino radioso di Keith Haring che prende vita. Quando ho visto per la prima volta le sue illustrazioni, mi sono chiesta da dove venisse quell’energia così selvaggia. Ma poi ho incontrato Olimpia ed era ovvio, l’energia sprizzava da lei in piccoli raggi”.
Ti riconosci in questa fotografia?
Ho chiesto a diversi autori e autrici di scrivere un piccolo pensiero sul mio lavoro all’interno del volume, come spesso accade per questo tipo di pubblicazione. Nel ricevere questi testi ho provato molta riconoscenza e un po’ di imbarazzo, perché è sempre strano vedersi dal punto di vista di un’altra persona. Anche nel caso della frase di Tamara, ne sono molto felice ma è difficile dire se mi ci riconosca.
Parlando sempre di Haring, il suo trademark viene definito dal poeta Renè Ricard “il bambino raggiante”.
Ti si potrebbe associare l’aggettivazione di “eterna bambina raggiante”?
Stesso discorso di prima, molta riconoscenza, ma anche un po’ di imbarazzo.
Perché “Caleidoscopica”?
Perché è una galleria di forme e colori che si scompongono per poi ricomporsi e per dare alla luce nuove immagini. Per crearle sfrutto l’elasticità del linguaggio visivo e racconto piccole storie quotidiane di personaggi contemporanei che riflettano la realtà circostante o che la anticipino.
I miei soggetti sono individui multiformi e multicolori che abitano lo spazio con disinvoltura, rispetto e capelli rosa…