Ranocchio salva Tōkyō
di Haruki Murakami
“Che il tuo cielo sia sereno, che il tuo sorriso sia luminoso e calmo!
Sii benedetta per quell’attimo di beatitudine e di felicità che hai donato a un altro cuore, solo, riconoscente!
Dio mio! Un minuto intero di beatitudine! È forse poco per colmare tutta la vita di un uomo?…”
Le notti bianche
Fëdor Dostoevskij
Avvolti dalle braccia di Morfeo.
L’attività onirica è sempre presente?
Cosa accade nei sogni?
Cosa accade mentre si sogna?
La dimensione reale si (con)fonde con quella onirica?
In ordine.
Sì, è la cosiddetta fase rem.
Potenzialmente tutto e nulla, ma la maggior parte delle volte (purtroppo o per fortuna) si dimentica.
Potenzialmente tutto e nulla e ne si viene a conoscenza o integralmente o parzialmente o ne si resta all’oscuro.
Sì, sempre nelle opere di Haruki Murakami dove il confine tra sogno e realtà, tra sonno e veglia è labile e ondivago. Soprattutto quando il potere dell’immaginazione è un mezzo revanscista, una via di fuga dalla monotonia e dalla routine di una vita immota e ordinaria, in cui si pensa anche di essere stati “abbandonati da Dio”.
Conrad scriveva che “il vero terrore è quello che gli uomini provano per la propria immaginazione”, come ricorda il Signor Ranocchio a Katagiri. Ed è forse per tale motivo che essa può manifestarsi dagli anfratti più reconditi dell’inconscio.
Questa salvifica declinazione “fantastica” della mente umana è rappresentata in Ranocchio salva Tōkyō dal palesarsi del verde molosso anfibio a Katagiri, anodino impiegato della Sezione finanziamenti della cassa di credito e sicurezza di Tōkyō. La richiesta è tanto pacifica (seppur necessariamente belligerante), per il primo, quanto sconvolgente e sorprendente per il secondo, rassegnato nell’assistere al piatto perpetuarsi della propria esistenza: è necessario, infatti, tutto il suo coraggio, il suo senso di giustizia, la vicinanza del suo cuore, per aiutare Ranocchio a sconfiggere, nelle viscere della terra, il Gran Lombrico, un’entità enfiata nello spirito e nel corpo dall’odio, risultato di quanto in superficie accade, scongiurando, così, una catastrofe umana e naturale dalle immani dimensioni.
È una lotta tra il buio e la luce (nuovamente i chiaroscuri di Murakami), quella che si preconizza, una “battaglia solitaria” tra il bene e il male, che spesso è quello oscuro celato dentro se stessi rendendo stanziali sia fisicamente sia psicologicamente, ma anche causa di tragedie dalla portata ben più ampia.
“(…) Non sempre le cose che ci appaiono sonno quelle vere. Il mio nemico è anche quello che è dentro di me. Dentro di me c’è anche un anti-me.”
Uno dei sei racconti raccolti sotto il titolo Tutti i figli di Dio danzano scritti da Murakami nel 2000, Ranocchio salva Tōkyō viene, ora, ripubblicato per Einaudi (se trattasi di operazione commerciale, è comunque ben riuscita ed apprezzata) e impreziosito dalla matita di Lorenzo Ceccotti con illustrazioni riecheggianti le surreali atmosfere animate di Miyazaki.
Ritorna per ricordare – Nietzsche docet – che “la saggezza più grande è non avere paura”, che l’amore, la comprensione, l’intelligenza, l’unione di interessi e di intenti sono le sole armi per annientare il “nemico”, chiunque esso sia, qualunque fattezza esso abbia.
Kafkiano, metaforico e allegorico, narrato secondo tutti i crismi stilistici e contenutistici dell’autore giapponese, incluso il finale spesso aperto, il racconto è anche passibile di una duplice chiave di lettura: accanto all’incursione dell’immaginazione nella vita come salvezza, vi è anche la potenziale raffigurazione “retorica” delle guerre che ammorbano il Pianeta.
Ricorda, quindi, anche, come si evince dalle numerose citazioni letterarie del grande erudito Ranocchio – alter ego di Murakami? -, un significativo monito connesso con l’interpretazione più intimista, per cui l’unità di misura valoriale dell’esistenza umana consiste nella modalità con cui si affrontano le difficoltà, gli sprofondi, le fragilità, l’incertezza, il buio. La battaglia è, infatti, con se stessi nel fronteggiare la vita che come ti innalza così ti crocefigge.
“Meglio così, signor Katagiri. Meglio che non ricordi nulla. In ogni caso questa cruenta battaglia si è svolta tutta nell’immaginazione. È quello il nostro campo di battaglia. È lì che vinciamo e siamo sconfitti. Naturalmente siamo tutti esseri limitati, e alla lunga finiremo col perdere . Però, come aveva intuito Ernest Hemingway, il valore definitivo della nostra vita non sarà determinato da come avremo vinto, ma da come avremo perso.”
Haruky Murakami o si odia o si ama.
O lo si comprende, o si accetta di non comprenderlo, o si comprende la prossimità di un fugace e latente significato, la spessa trasparenza delle sue sfumature.
Si ama, si comprende e si accetta.
In tutte le sue spiegazioni inevase , le sue assenze e presenze immotivate e insensate, la sua dovizia pleonastica di dettagli, la sua dimensione onirica e la sua realtà (surreale) il cui crinale è verosimilmente ambiguo.
Il protagonista, Katagiri, è forse il sognatore dostoevskijiano?
“Fedor Dostoevskij ha descritto con una dolcezza incomparabile gli uomini abbandonati da Dio. Nel paradosso dell’uomo che ha creato il suo Dio e che da esso viene abbandonato, Dostoevskij ha trovato il vero valore dell’esistenza umana. Mentre nel buio combattevo col Gran Lombrico, all’improvviso mi sono ricordato delle Notti bianche. Io…”
Poi, una trasformazioni, il sonno e… dissolvenza.