Rumore bianco
di Don DeLillo
Tra i romanzi che, precorrendo i tempi, hanno raccontato la contemporaneità, in tutte le sue grottesche e nefaste anomalie e disfunzioni, la società quasi ai limiti del distopico, minacciata dal progresso tecnologico della comunicazione, soffocata dalla saturazione mediatica e in cui la televisione, la pubblicità e la “rete” parlano un invasivo linguaggio imperioso, Rumore bianco, dello scrittore statunitense Don DeLillo, trova meritoriamente collocazione.
Uscito negli Stati Uniti nel 1984, vincitore del National Book Aword nel 1987, White noise è uno dei manifesti della narrativa postmoderna americana, di cui DeLillo è tra i maestri.
Immerse in uno sfrenato consumismo – quotidiano esercizio esorcizzante la paura dell’ignoto – le esistenze dei protagonisti – il professor Gladney, preside del Dipartimento di Studi Hitleriani di un college e docente del corso di Nazismo Avanzato, della “smemorata” quarta moglie e della numerosa (talvolta disturbante) progenie – scorrono in un’apparente tranquillità nella piccola provincia benestante americana.
Mattatore di questa routinaria pratica è il Supermercato. Panacea di tutti i mali, luogo sacrale capace, secondo il visiting professor di icone viventi, Siskind, di ricaricare spiritualmente, esso è gravido di dati sovrannaturali (lettere, numeri, colori, voci, rumori, codici e frasi convenzionali) da decodificare in quanto celati nel simbolismo, nascosti da veli di mistificazione e strati di materiale culturale. Un rifugio antiatomico da cui dipende la sorte dell’umanità: “Tutto andava bene, avrebbe continuato ad andare così e addirittura finito con l’andare meglio finché il supermercato non avesse avuto un cedimento.”
Esistenze cullate dall’onnipresente rumore bianco di cui l’aria, per DeLillo, è satura. Un coacervo di campi elettrici e magnetici, di onde e radiazioni di radio, tv, elettrodomestici, trappole radar anti-velocità, che, salmodiando una “partitura panasonica”, edifica una campana di vetro (frangibile) sopra le ovattate vite dei personaggi. (“E se la morte non fosse altro che suono? Rumore elettrico. Uniforme bianco”).
Ma che l’ambiente privilegiato non rappresenti una salvifica impermeabilità ai veri problemi della società, inevitabilmente destinati a toccare tutti, è ben presto dimostrato dall’arrivo “dell’evento tossico aereo” che accende i riflettori sulla caducità dell’esistenza umana. L’atavica paura della morte (secondo l’autore da tutti avvertita, ma mantenuta al di sotto della percezione), ora, infatti, prende corpo.
E l’incidente consolida quel crescente rispetto e quella morbosità per i particolari più truculenti (“la sua voce tradiva una voglia matta di un po’ di orrori”), per i racconti più raggelanti e quella cosciente e lucida delusione per la loro mancanza, già ampiamente allenati grazie ad una presenza di fondamentale importanza nella tipica casa americana: la televisione.
Altra grande protagonista di White noise è, infatti, la popperiana “cattiva maestra televisione” che esorcizza anche le paure più ancestrali spettacolarizzando disastri umani e naturali. Essa rappresenta gli spasimi agonici della coscienza umana per gli studenti del college. Conchiusa in sé, senza tempo, autolimitata, autoriferente, anch’essa traboccante di dati sovrannaturali comprensibili solo “riacquistando un metodo per guardarla superando, così, l’irritazione, la stanchezza e il disgusto”, è, invece, per il professor Siskind.
Dalla prosa minuziosa, visionaria, visiva, lucidamente apocalittica e metafisica, il Rumore bianco di DeLillo travolge in questo dramma contemporaneo che, dopo un’apparente e ingannevole quiete dopo la tempesta, procede verso l’epilogo con colpi di scena dalle virate anche tragicomiche.
Un critico ritratto del capitalismo e del consumismo, utopici viatici per le ossessioni, le angosce (anche rimosse) e le paure umane, che inevitabilmente pone universali interrogativi derivanti forse anche dal fatto che “la tecnologia è la lussuria estrapolata dalla natura.”