9 Giugno 2021

Tristezza perfetta

Casa d’altri
di Silvio D’Arzo

«Dallo stagno mi voltai per guardare giù in basso.
Sette case. Sette case addossate e nient’altro: più due strade di sassi, un cortile che chiamano piazza,

e uno stagno e un canale, e montagne fin quanto ne vuoi.
Le tre vecchie erano ancora là ferme, proprio dallo scalino di casa, sotto la finestra illuminata ed aperta.

Ecco tutta Montelice”, dissi. “Tutta quanta: e nessuno lo sa”».

«Dai costoni dei monti e dei pascoli veniva giù il color blu della notte. Non c’è più grama compagnia di quell’ora. Vi sorprendono certi pensieri, e i ricordi v’entrano in corpo: “tutto qui?” vi vien fatto di chiedere: sicché un uomo non è neanche un uomo».

Secondo Filelfo, il misterioso autore de “L’assemblea degli animali”, dimenticare la propria cultura equivale a dimenticare la natura e corrisponde ad uno scollamento dell’essere umano da quell’anima unitaria di cui fa parte. Il recupero della cultura, di un determinato sentire, empatizzante e sensibile, significa, quindi, anche conoscere Silvio D’Arzo, scrittore reggiano talvolta marginalizzato pur essendo un importante esponente della letteratura italiana del Novecento.

Una lettura o rilettura del suo piccolo gioiello Casa d’altri, uscito postumo nel 1953, è, inoltre, ancor più suffragata ricorrendo quest’anno il centenario della sua nascita.

«Ecco, nella lettera c’era scritto se in qualche caso speciale, tutto diverso dagli altri, senza fare dispetto  a nessuno, qualcuno potesse avere il permesso di finire un po’ prima».

Cosa significa “finire prima“?

A ridosso della fine della seconda guerra mondiale, sul fondale duro e acre dell’Appennino emiliano, nel piccolo paese di Montelice – sette anime e sette case – dove la vita è avvertita come un’anodina attesa che scorre, Silvio D’Arzo, al secolo Ezio Comparoni, ambienta una storia esulcerante e impressiva in cui quell’interrogativo trova risposta.

Risposta che giungendo al termine di quel racconto che Eugenio Montale definì “perfetto”, infonde un’aura misteriosa e ambigua sia negli accadimenti sia nelle dinamiche tra i protagonisti.

Dalla bellezza magnetica sostanziata nell’assolutezza della tristezza, Casa d’altri (Corsiero Editore) è una storia di solitudine scandita dalle stagioni e dai colori delle loro ore, in alcune delle quali la potenza di quel sentire è un puro parossismo che tinge di “ruggine vecchia”, poi di viola e poi ancora di blu i calanchi, i sentieri, i boschi, i prati. Sono ore in cui negli occhi animali, che si confondono con quelli umani, si legge la consapevolezza dell’inerzia di un paese in cui non capita nulla. Si vive.
Si vive e poi si muore.

È un mondo “intelligentemente” triste quello dipinto da Ezio Comparoni, nel quale la voce narrante, un reverendo (“un prete da sagre e nient’altro”), è lucidamente immerso riconoscendone quella vena di afflizione diffusa che descrive dettagliatamente e al cui cospetto pensa, con amarezza, si potrebbe anche adottare una postura “ignorante”: del resto “gli occhi sono fatti anche per essere chiusi, no ?”

«E poi adesso mi sarebbe piaciuto poter farle anche un po’ male. appena appena così, si capisce. Naturalmente non riuscivo a spiegarmelo; solo capivo benissimo che non c’era neanche un grammo di senso e che venivo per giunta in questo modo a far male anche a me.»

Oltre all’enigmatico sacerdote dalla mole falstaffiana respirano quell’aria livida montanara, fredda e silenziosa, disturbata dai campanacci dei cani, il giovane dottore neo arrivato, Melide, la sarta dell’estremo lenzuolo, le “sei vecchie di Bobbio”, il chierichetto e Zelinda, “la vecchia” che, con puntuale rassegnazione, lava i panni nel canale. È lei – ironia della sorte – ad apparire “l’unica cosa viva” agli occhi del prete che inizia a nutrire un sentimento indefinito per quella figura curva sullo scorrere dell’acqua e del tempo.

Con lirismo e immediatezza, dalle pagine di uno dei “lunatici padani” è pesante il velo materico di angoscia, di impotenza, di malinconia, di ineluttabilità che si leva. E dà risposta all’interrogativo iniziale la cui radice narrativa ha origine autobiografica. La breve vita dello scrittore fu, infatti, segnata da tormenti familiari che alimentarono in lui una sensazione di estraneità al mondo, di inadeguatezza. Un mal di vivere che solleva un altro quesito: cosa significa casa? È uno stato mentale che prescinde dai muri, dalle pareti fisiche come quelle di via Aschieri in cui D’Arzo abitò e che tenne sempre al riparo, all’ombra della riservatezza. Sono i muri intimi, profondi, ipogei, costruiti sul proprio vissuto che portano a percepirsi irrelati e a trovarsi sempre, nonostante tutto, fuori luogo, in prestito, in casa d’altri.

In quella profondità alberga una tragica immobilità.
Tanta.
Troppa.
Da creare assuefazione.
O quasi.

L’edizione di Corsiero Editore del 2013 reca in copertina In-viso di Omar Galliani

«Il me semble
 que je serais toujours bien
 là où je ne suis pas»


Charles Baudelaire
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