10 Maggio 2016

S’alza il vento

Una storia quasi solo d’amore
di Paolo Di Paolo

 

Nato da una sinestesica intuizione poetica, la vista di una voce che pronunciava “Eravate bellissimi”, Una storia quasi solo d’amore (Feltrinelli) di Paolo Di Paolo si impone per la profonda connotazione lirica ed esistenziale, non solo dell’impianto stilistico. Ne sono declinazione la narrazione cadenzata dalle tre epigrafi (elemento caro all’autore anche laddove intelligibile) esacerbanti le pagine che le seguono, e una sorta di flusso di coscienza, quel monologo interiore della voce narrante che, pur cedendo il passo a brevi dialoghi e battute tra Lui e Lei e tra Lui e Loro, mantiene salda la posizione di regista della storia, anche, poi, solo vegliando.
Ne è declinazione la circolarità poetica dell’immagine Eravate bellissimi”, incipit ed epilogo del racconto: dapprima rivolta a coloro che, incuranti del passato e del futuro, “ipotesi inopportune e prive di fondamento”, non hanno né lacci né capestri, nessuna faccia torva da sfidare (“Meglio così, mi dico, mentre pure li sfido, a lezione, cercando in loro qualche segno del vecchio mondo – il mio. Cos’è la colpa, per voi? Vi sentite mai in colpa? Mai. E l’innocenza? Una questione, per loro, di fedina penale”); volta, infine, a Lei, trentenne, nipote dell’io narrante, impiegata in un’Agenzia di viaggi, cattolica, complessa, caustica, giudicante, carica di ansie, affascinante tanto per la sua indecifrabilità quanto per l’inconsapevolezza della propria bellezza, e a Lui, ventenne, in passato alunno dell’io narrante ora insegnante di recitazione in un laboratorio teatrale per la terza età, spavaldo, ateo, basico, trasparente, carico di domande su di Lei.
StoriaQuasiSoloAmore
A sostegno dei due avverbi attentamente assestati nel titolo, vi sono, sì, la dialettica vecchi/giovani, la diversità dell’eclatante distanza intergenerazionale e quella forgiata da differenti categorie che induce ad un’inderogabile contaminazione e a ontologici interrogativi. Tuttavia, quanto raccontato è  essenzialmente una storia d’amore: benché in nuce, è quello tra un uomo e una donna, ritratto nell’istante dell’innamoramento, nell’attimo della deflagrazione dei pregiudizi che naturalmente rendono catafratto l’essere umano, ma anzitutto è amore per la vita. Quella che subitaneamente nel più crudele dei mesi, nel mese che trema ai vetri e che mesce memoria e desideri, “prende a oscillare tra due frasi”: ” È andata così. Se avrò tempo.”
La vita che continua a incedere nonostante la fine di quel futuro temporale, assistendo con benevola invidia, sotto il cielo di Roma “intravisto o forse solo sognato, allo spettacolo del miracolo della giovinezza che inevitabilmente procede oltre la propria, “meravigliosa confusione del corpo e della mente, incertezza e slancio, coglioneria totale, inesperienza e feroce presunzione, capacità di sentire e godere.”

Amore per il teatro, per il teatro della vita, quel palcoscenico in cui mentire, celare, dissimulare, disvelare, senza possibilità di prove generali, in cui lo stupore indulge col tempo nella lucida e anodina abitudine e in cui “qualcuno da lontano, scambia per luce vera il neon freddo e sterile del saperci fare.”

“C’è una zona teatrale in ogni nostro atto – ci stava arrivando anche lui – , una posa, una pronuncia, un gesto, un’espressione del viso che corrisponde a un calcolo, e comunque a un’attesa. Non è una questione di doppia vita, ma di questa, dell’unica: così, c’era il teatro, pessimo teatro, nella scena di lui che gira le spalle e pianta lì Teresa (…) E come nell’altro teatro, nel vero, nulla si ripete uguale: simile sì, mai identico, nulla  si ripete né lascia traccia. Tutto esiste solo in quell’istante e poi niente, scompare, evapora, non ha testimoni che non siano quel pubblico ristretto, scelto o improvvisato, radunato su due piedi: come intorno ai cantanti di strada, ai giocatori, ai matti.”

E l’ineluttabile convoca il vuoto, l’assenza, l’esulcerante impossibilità e incapacità della normalità, ma anche il dovere di procedere e la necessità di aderire alla vita, mentre la voce narrante, ironica e nostalgica, si fonde con quella di Giovanni Raboni, eletto qui, dove “tutto, anche le foglie che crescono, anche i figli che nascono, tutto, finalmente, senza futuro”, a sodale di Paolo Di Paolo.

“Vi siete chiesti cosa avrei detto, cosa avrei consigliato, voluto. Lo avete chiesto a me, anche se non era più possibile farlo davvero, lo avete chiesto con intensità, con disperazione, e solo dopo molto tempo, com’era giusto, con allegria: da silenzio a silenzio, come una preghiera. Mi avete chiesto di schiarirvi l’orizzonte, come se io, da qui, potessi fare altro che non sia contemplare la meraviglia del vostro essere vivi, e vegliare, come si dice di un’attesa, di un tempo che ci sta a cuore (…)
Vorrei dirvi molte cose, anche se nessuna è indispensabile: di godervi le cose, questo sì, e di non avere fretta, o paura di fallire. Sono cose da vecchia zia, e d’altra parte non posso smettere di essere quello che ero, di parlare come parlavo, sono ancora questa voce che a volte vi torna all’orecchio, è rimasta lì, si fa viva mentre state per prendere sonno.”

 “S’alza il vento – scriveva Paul Valery – bisogna osar di vivere.”

 

 

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