milk and honey
di Rupi Kaur
“l’idea che siamo
tanto capaci d’amore
eppure preferiamo
essere nocivi”
Quanto raccontano le dediche dei libri?
Tanto.
“per le braccia che mi stringono“ è quella che si staglia – bianca, piccola, ma tagliente ed eloquente – su di una pagina – nera, il negativo che permette il positivo -.
Le braccia sono quelle prepotenti di chi ha vigliaccamente abusato, ma anche quelle che, avvolgendo amabilmente, rappresentano la speranza di una vita.
Il potere della parola, si sa, è cosa acclarata anche già dal famoso adagio biblico “ferisce più la lingua della spada”.
Le sue sono parole d’amore, di dolore, di perdita e di rinascita, che, prima di assumere corpo cartaceo, assurgendo alla dimensione editoriale e posizionandosi per nove mesi ai vertici della classifica del New York Times, erano già un “fenomeno” su instagram. È qui, infatti, che Rupi Kaur è divenuta famosa condividendo i diversi stadi del proprio essere con milioni di followers e lettori.
Le liriche ermetiche, talvolta simili agli Haiku giapponesi, dell’artista indo-canadese (nata a Punjab e trasferitasi a quattro anni a Toronto), raccolte in milk and honey rispondono all’urgenza del suo giovanissimo cuore, implorante, di intraprendere un viaggio della sopravvivenza attraverso la poesia:
“questo è il sangue sudore lacrime
di ventun anni
questo è il mio cuore
nelle tue mani
questo è
il ferire
l’amare
lo spezzare
il guarire”.
Quattro sono i capitoli intitolati da queste quattro azioni sperimentate sulla propria pelle dall’autrice, cresciuta in una cultura retriva e violenta, accompagnati da illustrazioni stilizzate ed esplicite, dalla medesima realizzate.
Quattro verbi che l’hanno ristretta, intorpidita, vessata, piegata, strappata, sviscerata, rialzata, evoluta, ricucita.
Quattro differenti stadi di sofferenza e di caduta da cui riprendersi e risollevarsi, congeniti meccanismi capaci di cogliere l’ubiquità della dolcezza.
milk and honey (per la casa editrice tre60) – nessuna maiuscola, quasi nessun segno di interpunzione nei suoi versi – è, dunque, un viaggio personale e terapeutico in cui naturale è l’identificazione di tante donne, giovani e non, toccate anche soltanto parzialmente dagli stati fisico-emotivi qui scandagliati e che potrebbe fungere anche da testo didattico e formativo per l’accettazione dell’altro, di quell’alterità troppo spesso “schiacciata”. Per una gestione dei generi, del conflitto tra di essi, oggi più che mai imprescindibile.
Definita un’instapoet e autodefinitasi un’ intersectional feminist, combattendo la discriminazione figlia della religione, del genere, del sesso, dell’etnia e della posizione sociale, Rupi Kaur è divenuta un emblema di forza e pugnacia grazie alle sue parole, laconiche ma potenti, e che per la loro connotazione talvolta un po’ naïf e acerba agevolano l’incontro del pubblico con la poesia iniziando, soprattutto i giovani, ad approcciarsi al genere.
“il mio battito accelera al
pensiero di partorire poesie
ecco perché non smetterò mai
di aprirmi per concepirle
fare l’amore
alle parole
è eroticissimo
per la scrittura
provo amore
o lussuria
o entrambi”
Le braccia aprono.
Le parole, violente, dolenti e ristabilite, fluiscono ferendo e cauterizzando sino a fare approdare ad uno stato di quiete dapprima con se stessi, poi con l’universo.
Un “ringraziamento” per aver forzato l’anima a dedicarsi all’atto del comporre, un fiore sbocciato, ed una lettera “d’amore da me a te” chiudono.
Ancora nero su bianco. Bianco su nero. Positivo e negativo che esistono in un rapporto (anche purtroppo) di reciproca funzione e il differente assorbimento della luce rifratto dall’essere umano.
“com’è che ti viene così facile
esser buona con la gente chiese lui
latte e miele stillarono
dalle mie labbra mentre rispondevo
perché la gente non è
stata buona con me“