Quel che affidiamo al vento
di Laura Imai Messina
La sensazione che provò Keita quel giorno
e faticò a descrivere al padre che curiosamente assomigliava
(1) – alla percezione che Yui aveva della nostalgia
– e i casi in cui la provava più forte (2):
(1) «Come di qualcosa che non è perfettamente allineato
eppure diritto, qualcosa che magari vedi e ti
sembra anche giusto, ma resta sempre un po’ fuori
fuoco, un po’ più a destra o a sinistra di dove stai
guardando. Qualcosa che in teoria è giusto, eppure
continua a parerti sbagliato.»
(2) «Quando qualcuno, fumando, lascia cadere a terra
Il mozzicone. Ogni Capodanno da quando è morta
mia madre e il sapore dell’o-seichi ryōri è buono,
buonissimo pure, ma diverso. Quando mia sorella si
struscia il rossetto sulla bocca prima di uscire e pare
una donna. Ogni volta che qualcuno di noi rientra
in casa e non si sente mamma dire ‘okaerinasai‘.»
«Non ti amavo allora quanto ti amo adesso».
«Piove sempre, inizia a stancarmi».
«Zia, dove sei?».
«Pronto, nonno? Com’è che si passa il tempo dove sei?».
«Sono morte 71 persone in un incendio di un grattacielo di Londra».
«Se torni giuro, lo giuro…».
«Sei per caso tu che mi nascondi le cose? Ultimamente non trovo più niente…».
«Ho trovato il tuo diario, mi dai il permesso di leggerlo?».
«Mamma, sono Hana. Ti ricordi ancora di me? ».
«Papà?».
È scollegato dalla rete il vecchio telefono nero posto nella cabina che Sasaki Itaru ha installato nel 2010 nel giardino Bell Gardia, sul fianco di Fujira-yama, la Montagna della Balena, accanto a Ōtsuchi, uno dei luoghi più colpiti dallo tsunami dell’11 marzo 2011 nel nord-est del Giappone. Lo ha fatto per parlare al cugino scomparso incaricando il vento di veicolare i suoi pensieri.
Il Kaze no denwa, il Telefono del Vento è, infatti, allacciato ad un filo invisibile che unisce un prima a un dopo, un qui e ora ad un altrove fisico o mentale, e ogni anno migliaia di persone, provenienti da ogni parte del mondo, impugnano la sua cornetta.
Di quel filo, con leggerezza calviniana sia stilistica sia “pensosa”, che invita ad uno sguardo nuovo dei rapporti interpersonali, racconta Laura Imai Messina in Quel che affidiamo al vento (Piemme).
Ispirandosi a questo luogo reale, magico e spirituale, racconta una storia di resilienza e di speranza.
È la storia dei reduci, dei sopravvissuti che indossano un “minuscolo angolo buio del viso”, un piccolo spazio traditore della rinuncia alle emozioni, gioia compresa, che, al pari del dolore, sia essa insperata o indesiderata, necessita di tempo per essere riconosciuta e accolta.
È la storia di Yui, attanagliata da un senso di nausea alla vista del mare, quotidianamente spiato «abbracciata all’albero e insieme aggrappata alla cosa più forte del mondo, alla vita che suo malgrado è ancora dentro di lei», e torturata da quegli oggetti “sleali” che incontra per casa: nello tsunami ha perso la figlia di tre anni e la madre.
È la storia di Takeshi, la cui figlia dalla scomparsa della mamma, per una grave malattia, non proferisce più parola. È la storia di Shio, di Keita. È la storia di quegli anziani accartocciati all’interno della cabina telefonica alla ricerca di figli perduti, di fratelli meno longevi. È la storia di bambini che hanno perso di vista un amico, o che hanno perduto l’amico a quattro zampe.
È la storia di tutti, perché tutti hanno subito la perdita, la trasformazione, l’allontanamento di qualcuno con cui è possibile costruire una relazione diversa, accettando le simmetrie che il mondo dei vivi intrattiene con il mondo dei morti e alimentando quel filo che allaccia le due dimensioni.
«Per la prima volta dal giorno dello tsunami, accettò di dubitare della fermezza che si era imposta, della decisione di tagliare in due il mondo, quello dei vivi da quello dei morti. A parlare con chi non c’è più, pensò, non si fa forse nulla di male. Bastava accettare che le mani non toccassero nulla, che lo sforzo di memoria fosse tale da riempire le falle, che la gioia di amare si concentrasse non nel ricevere, ma solo nel dare. Quella notte, avvolta nelle coperte, aprì un libro di fiabe. A voce alta lesse dell’intrepido soldatino di stagno».
Grazie a quel luogo abitato da una natura violenta e stupefacente e dal vento, in tutte le sue declinazioni, cui le voci, le presenze e i pianti affidano le proprie parole, i propri silenzi, le proprie lacrime affinché li incanali verso chi nel quotidiano non è più visibile agli occhi, si vivono salvifiche palingenesi innestate le une nelle altre.
E la laconicità di elenchi, di precisazioni, di informazioni intervallanti i capitoli, animano di lirismo la narrazione, scevra da qualsiasi facile retorica.
Laura Imai Messina racconta, sì, di dolore, di lutto e di morte, ma lungi dall’essere un romanzo triste e sconfortante, Quel che affidiamo al vento possiede la potenza di un messaggio di vita e di rinascita che nel tempo e nella fiducia trova la sua forza: «Era un atto di pura fiducia alzare la cornetta, far sciacquare le dita nei dieci piccoli fori, e nonostante il silenzio che si divaricava, parlare. Ecco, la chiave era proprio la fiducia!».
La bellezza può rinascere dopo un disastro “naturale”, l’equilibrio riassestarsi, la gioia risentirsi, nonostante porti sempre impresse le impronte del dolore.
Ed ecco, allora, la nausea svanire e la gioia ritornare.
Anche con una parola. Una sola.