Milan Kundera
[Brno, 1 aprile 1929]
La vita è altrove
Fu testimone dell’era in cui “il poeta regnava a fianco del carnefice” e dove “l’innocenza danzava col suo sorriso insanguinato.”
Il tradimento di Paul Eluard, che consegnò i suoi amici praghesi alla giustizia stalinista, scardinò il granitico sistema dei valori di Milan Kundera inducendolo a domandarsi quale sorte fosse spettata alla voce del poeta europeo ancora alta (benché per un’ultima volta) durante le rivoluzioni comuniste dell’Europa Centrale nel secondo dopoguerra.
La vita è altrove, celebre verso del decadente Rimbaud, citazione del Manifesto Surrealista di Breton e slogan degli studenti parigini nel ’68, è il titolo, ossequioso della logica commerciale editoriale, dell’originario L’età lirica dello scrittore ceco. Così, infatti, avrebbe dovuto intitolarsi il romanzo, a rappresentare “l’atteggiamento lirico”, quella tensione potenziale di ogni essere umano e “una delle categorie fondamentali dell’esistenza.”
L’età lirica è la giovinezza e l’omonima opera ne è epica espressione.
In una dolente e sarcastica narrazione Kundera esamina il controverso e complesso rapporto tra giovinezza, poesia e rivoluzione.
“Rivoluzione e giovinezza sono due cose inseparabili. Che cosa può promettere la rivoluzione agli adulti? Ad alcuni la prigione, ad altri i suoi favori. Ma neanche quei favori valgono un gran che, perché interessano solo la metà peggiore della vita e apportano, insieme con i vantaggi, l’incertezza, un’attività spossante e lo sconvolgimento delle abitudini. La giovinezza è in una posizione migliore: non è carica di colpe, e la rivoluzione può prenderla tutta sotto la sua protezione.”
È poeta di regime, infatti, Jaromil. È “il Poeta”. Lo è dal momento del suo concepimento. Sensibile, fragile, insicuro, è succube di un amore materno che lo accompagnerà per tutta la sua (breve) esistenza. E “naturalmente, è anche un mostro, una mostruosità che si trova in potenza in ognuno.”
Antitesi del Poeta è il suo immaginario alter-ego, Xaver. Un impavido “Morfeo” rivoluzionario, scevro da costrizioni di sorta, nel quale confondendosi egli si identifica incapace di interpretare il ruolo di attore della vita reale, e specchio riflettente l’immagine virile tanto agognata. Altro specchio, invece, premiante, esaltante e, forse, mistificante, è quello rappresentato dai suoi versi.
“La poesia lirica è un territorio in cui ogni affermazione diventa verità. Il poeta lirico non deve dimostrare nulla; l’unica prova è l’intensità della sua emozione. Il genio del lirismo è il genio dell’inesperienza. Il poeta sa poco del mondo, ma le parole che sgorgano da lui si dispongono in splendidi agglomerati, definitivi come il cristallo; il poeta è immaturo e ciò nonostante il suo verso ha in sé la definitività di una profezia, davanti alla quale lui stesso trasecola.”
Non solo, dunque, quell’idea di vita come ombra effimera e sfuggente è “insostenibile”, ma anche l’età lirica. Il vero poeta è consapevole di “quanta tristezza abiti nella casa degli specchi della poesia” e varcando la sua soglia, erroneamente o deliberatamente, forse alla ricerca di quell’altrove, non può che attenderlo la morte, essendo egli “incapace di sparare”.
Lermontov, Byron, Halas, Wolker, Majakovskij, …. Jaromil.
“Com’è possibile? Eppure ha letto dappertutto che la giovinezza è il periodo più pieno della vita! Da dove viene dunque questo nulla, questa rarefazione della materia vivente? Da dove viene questo vuoto?”
Avrebbe, certamente, incontrato differente destino Jaromil, il poeta, se avesse conosciuto Michel Houellebecq . Così avvezzo al brutale, all’insidioso e ad un mondo che è “sofferenza dispiegata”, il poeta sarebbe sopravvissuto. “Il primo passo poetico consiste nel risalire all’origine. Cioè: alla sofferenza – scrive, infatti, Houellebecq – . Ad un certo livello di coscienza si produce l’urlo. Ne deriva la poesia.”