13 Aprile 2017

Mala grazia

L’amore sgarbato
di Elena Venditti

 

“Lui conobbe lei e se stesso,
perché in verità non s’era mai saputo.
E lei conobbe lui e se stessa,
perché pur essendosi saputa sempre,
mai s’era potuta riconoscere così…”

Italo Calvino
da Il barone rampante

 

 

La violenza arriva subito, non si fa attendere. Senza troppe surrettizie perifrasi sentimentali, si manifesta alla sesta pagina sotto forma di un calcio sferrato contro la coscia durante un campeggio estivo.
Nina ha trent’anni, ha il coraggio indomito tipico delle persone buone d’animo, il desiderio di “appartenere a qualcuno” e la fortuna di possedere un tesoro: l’amicizia di Nicola e Rita, le sue “guardie armate“. Tre sorelle non di sangue, ma anelli (seppur con le proprie debolezze e fragilità) della stessa infrangibile catena. Ognuna portatrice di un proprio particolare vissuto.
Erzo (Uderzo) – se esistesse una diretta corrispondenza tra l’onomastica e la criminologia sarebbe un notevole vantaggio – è poco più che ventenne e in virtù dell’oscura “landa sgarbata” in cui vive è pervaso da un amore che gli brucia dentro come il fuoco di Sant’Antonio. È la tronchese intenzionata a spezzare l’anello in sé (Nina) ed anche la catena stessa.
L’amore sgarbato di Elena Venditti (Aliberti compagnia editoriale) è uno spaccato di cronaca quotidiana. Una storia di violenza travestita da amore, una violenza proteiforme e composita agita e subita attraverso le generazioni, fisicamente, sessualmente e psicologicamente. Una storia in cui milioni di donne possono specchiarsi, alcune dirimpetto, altre in tralice.
Il titolo è un ossimoro, è una figura retorica in cui sostantivo e aggettivo sono confliggenti: la potenza del primo esclude il secondo, la vigliaccheria del secondo annichilisce il primo. Per definizione.
È l’iterazione di un copione in cui le parti sono sempre assegnate ai medesimi attori, inclusa la “classica” digressione che talvolta vuole la vittima vestire i panni del carnefice.

“Nina si guarda intorno come fosse braccata da un mostro. Non è tranquilla e non se la sente di incontrare quel pazzo. Dentro di sé, però, c’è un germoglio che ha ripreso a crescere. Se ne vergogna, si sputerebbe in faccia ma è così. Si tocca l’occhio destro che ancora le fa male, poi, meccanicamente la mano scivola sulla coscia. Ancora c’è l’ombra del livido. Il suo è un dolore-vergogna che aumenta quando pensa che l’ha perdonato e ha proseguito la vacanza con lui. Non se lo sa spiegare, quello che è scattato nel suo cervello. Ha voluto dargli una seconda possibilità ma se l’è giocata malissimo, quel maledetto schifoso. E ora? Perché quel barlume di pietà ha ricominciato ad accendersi dentro di lei com’ è successo a Palinuro?”

(…)

“Erzo ha ordinato un cappuccino e un cornetto, ce li ha davanti ma gli è passata la voglia di fare colazione. La telefonata di Nina … cosa le dirà quando la vede? È sicuro che dietro alla storia della pazza che lo ha ammanettato c’è lei. O forse no, forse non c’entra niente, però è meglio farla sentire in colpa così lui avrà di nuovo il coltello dalla parte del manico. Lo schiaffo che le ha dato passerà in cavalleria, sarà lei a dovergli delle scuse.”

 Attraverso uno stile piano e contemporaneo, la scrittrice romana in 41 brevi capitoli racconta entrambi i punti di vista, mantenendo lucida ed equa distanza dalle prospettive e non indulgendo in facili pietismi, moralismi e giudizi. Ripercorre la cronistoria di quel circolo, talvolta, vizioso fatto di paura, vergogna, negazione, incertezza, giustificazione, auto-giustificazione, senso di colpa, vigliaccheria, ricatto, sfinimento, rinsavimento e ancora ricerca di attenuanti alla “violazione”. Perché il corpo della donna è violabile, quello maschile no.
E questa seconda opera di Elena Venditti ne è l’ennesima conferma, riverberando anche quella cultura retriva, fondamentalmente patriarcale, di cui l’uomo è, più o meno scientemente, “vittima”, incapace di un’educazione sentimentale che preveda “l’altro” e l’alterità; ingabbiato in ruoli imposti dal virilismo che vi ha sempre associato i principi di forza, autorità e gerarchia.
Il “troppo amore” non si può sentire, “delitto passionale”, “gelosia”, “raptus”, neppure. L’amore sgarbato, benché un ossimoro, si può leggere, si deve leggere quale testimonianza della possibilità di reazione a quel circolo vizioso, a quell’amore avvelenato, nonostante la fine sia (forse) senza la certezza della pena.
Purtroppo come spesso accade.

 

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