Il ballo delle pazze
di Victoria Mas
«Thérése guarda Eugénie continuando a lavorare a maglia.
Quella giovane borghese non le pare particolarmente pazza,
anche se è vero che le pazzie più profonde non si vedono.
Thérése ricorda clienti, i più perbene, i più corretti al primo approccio, che una volta chiusa la porta della stanzetta si rivelavano veri e propri malati mentali.
Tuttavia la pazzia degli uomini non è paragonabile a quella delle donne, perché gli uomini la esercitano sugli altri, mentre le donne su se stesse.»
«Oltre le mura della Salpêtrière, nei salotti e nei caffè, si fanno illazioni su come possa essere il reparto di Charcot, detto ‘il reparto delle isteriche’. Immaginano donne nude che corrono nei corridoi, sbattono la fronte sul pavimento, allargano le gambe per accogliere un amante di fantasia, urlano a squarciagola dall’alba al tramonto. Descrivono corpi di pazze che scoppiano in convulsioni sotto lenzuola bianche, espressioni alterate sotto capelli irsuti, facce do vecchie, di obese, di brutte donne che è sacrosanto tenere a distanza, anche se non si sa bene perché, visto che non hanno arrecato offesa o commesso delitti. Ma non c’è nessuna isterica che balla scalza nei corridoi freddi, solo una preponderante battaglia muta e quotidiana per la normalità.»
- Appartenere al genere femminile.
- Possedere un pensiero, personale, diverso, eccentrico. Schiaffo all’ottuso codice comportamentale comunemente condiviso.
- Trovarsi nell’Ottocento.
Anche cambiando l’ultimo di questi tre termini la conseguenza della compresenza dei primi due, se non addirittura soltanto della presenza del primo potrebbe non mutare, a seconda del contesto geografico: discriminazione sessuale, economica, professionale, violenza fisica e psicologica. Nonostante le società si siano “evolute”, la proterva predominanza della cultura del maschile è, infatti, un dato acclarato.
A Parigi, ad esempio, il soddisfacimento delle tre condizioni significava possedere un nullaosta per entrare alla Salpêtrière, l’ospedale situato nel quartiere sudorientale della città, sul cui ingresso campeggiava, nero su bianco, l’incisione in pietra Liberté, Égalité, Fraternité. Un motto beffardo per coloro che varcavano quella soglia, nella maggior parte dei casi, senza più farne ritorno.
“Deposito” per le donne dotate di una voce, di un pensiero, per quelle manifestanti un accenno di ribellione al costume comune, per quelle che non corrispondevano alle aspettative sociali come il non adeguarsi ai ruoli di moglie e di madre, la Salpêtrière era, infatti, «una prigione per donne colpevoli di avere un’opinione», soprattutto se divergente dall’ordine costituito e fatte internare da mariti, padri, fratelli, che ne decretavano, così, la cancellazione, la morte civile. Un tribunale familiare senza possibilità di appello.
Erano chiamate isteriche, alienate, pazze, mentre, in verità, erano donne scomode e temute: «Date le barriere che gli uomini imponevano, veniva da pensare che, più che disprezzare le donne, le temessero”. Come scomoda è la realtà che Victoria Mas racconta ne Il ballo delle pazze (edizioni e/o), una pagina di storia ignorata ed esulcerante ambientata nel calare del 1800, quando il direttore del manicomio femminile Salpêtrière, il dottor Charcot (uno dei maestri di Freud) praticava l’ipnosi per curare i “disturbi” femminili – tutti attribuiti all’isteria – anche mediante dimostrazioni pubbliche durante le quali induceva attacchi isterici al fine di studiarli.
Alla mercé di sintomi grotteschi le pazienti erano «bambole molli tra le mani di medici che le maneggiavano e le esaminavano in ogni minima piega», mentre la malattia era spettacolarizzata dinnanzi ad un pubblico morboso, eccitato ma impaurito da quelle “bestie strane“.
E sempre a scopo terapeutico l’insigne neurologo aveva introdotto un ballo in maschera che si teneva entro le mura dell’Ospedale a metà quaresima, “il ballo delle pazze” chiamato dalla Parigi-bene, esclusiva invitata. Bramosa e “affascinata dall’incontro con la follia e la perdizione” per quell’evento dell’anno, la borghesia parigina poteva saziare ancor più la propria ambivalente pulsione verso quella fonte di “attrattiva paradossale” che accendeva timori, fantasie, orrore e sensualità. Il pensiero inizialmente “deviante”, normalizzato dall’etichetta patologica, trasfigurava, infatti, le internate in soggetti di svago, esemplari di animali esotici, fenomeni da baraccone.
Tra l’odore di etere e di cloroformio e in un tempo disturbante e rarefatto, nudo di orologi, tra quelle donne scomode e disobbedienti figurano oltre a Jane Avril, la musa del pittore Toulouse-Lautrec, in un nostalgico cammeo, Geneviève, la rigorosa “madre insegnante” delle infermiere, colonna portante del reparto, dalla particolare abitudine epistolare, e Thérése, la “madre adottiva” delle alienate, la più anziana, la più saggia, dalle mani sempre in movimento con ferri e filati, e Louise, l’ingenua e speranzosa adolescente vittima di “continui” abusi, ed Eugénie, appartenente ad una famiglia altolocata e tradita perché troppo anticonformista e indipendente, ma, soprattutto, perché dotata di un dono speciale.
Già trasposto nella settima arte, pluripremiato e caso editoriale in Francia nel 2019, Il ballo delle pazze guarda lucidamente agli assiomi e ai corollari connessi al ruolo della donna, ma non solo. Lungi da facili pietismi e non senza colpi di scena, Victoria Mas parla di tradimento, di debolezza, di coraggio e di libertà, dell’impotenza al cospetto dell’ignoranza: «Come ribellarsi alle infermiere, ai medici, all’insigne luminare, all’ospedale, se la minima parola di troppo comporta l’isolamento o il ritrovarsi un fazzoletto all’etere placcato sulla faccia?».
Parla di amore eterno, di spiritismo, del valore della vita svincolato da un prima e da un dopo. Parla del deragliamento dai binari della normalità, che porta ad approdare alla libera sorgente del dubbio:
«Ti ho già detto quanto mi sento serena da quando ho dei dubbi? Proprio così, non bisogna avere convinzioni, bisogna poter dubitare di tutto, delle cose e di se stessi. Dubitare. Mi sembra chiarissimo da quando sono dall’altra parte…».