25 Giugno 2013

Con un graffio e una carezza l’avvocato seduce

Spiriti animali
di Giuseppe Benassi

 

Ogni uomo è una foresta in cui rinascono folle di bestie.” Sono gli Spiriti Animali (Pendragon) secondo l’avvocato Leopoldo Borrani nonché omonimo quinto romanzo, ambientato a Livorno, che lo vede protagonista, scritto dal reggiano, ma livornese d’adozione, Giuseppe Benassi.
Un noir esilarante quanto graffiante in cui il cliente di turno, colui che, secondo l’adagio, “è il peggior nemico dell’avvocato, colui al quale bisogna sempre sfilare, col sangue, la parcella e la parcella giusta tende sempre verso il massimo”, è una giovane donna venezuelana che, affidando temporaneamente all’avvocato la sua barboncina Cioppi, offre una nuova occasione di esplorazione dei mentali cunicoli bizantini di Borrani.
Copertina Spiriti AnimaliL’incontrastato protagonista è, difatti, lui, l’avvocato Leopoldo Borrani, virtuale collega dell’autore, che spazia per il recinto di un antropologico  zoo dove il progresso, o quello che si dice tale, segrega le bestie umane, apparendo così tranquille agli occhi di chi non sa vedere. Egli, infatti, “aveva sempre visto sé e gli altri come null’altro che animali. Bestie alla continua caccia di una preda, alimentare o sessuale; alla conquista e poi alla difesa di un proprio territorio; sempre pronte a difendersi con le armi di cui la natura le aveva dotate, dominate da un incontrollabile desiderio di potere, di ricchezza, di posizione.” E citando Lord Byron (il Proteo, il neopagano, il ciclotimico), per cui l’uomo è posseduto da spiriti animali, bestie invisibili che, insediandosi nel suo spirito, ne assumono il potere  benevolmente o malevolmente a seconda del caso, Benassi lo rende fidato sodale del protagonista in questa zoomorfica visione del mondo.
L’intersezione del mondo onirico col mondo reale, operazione ricorrente nella scrittura di Giuseppe Benassi, dà vita a quella dimensione surreale, anch’essa cara all’autore, da cui si sviluppano impreviste “piste mentali”.
Tutti dormono anche da svegli e l’umanità è tutta imbecille”, sostiene Borrani, edotto in ciò anche dalla lettura di Ouspensky, esacerbando l’urgenza di un risveglio dal diuturno sonno, dal perenne sopore in cui gli uomini, protetti dalle loro routinarie abitudini, vivono.

Si cercano dei padroni per non usare il cervello. La conoscenza costa fatica. La libertà di pensiero e d’azione è ciò che tutti fuggono.”

E lui, l’avvocato Leopoldo Borrani, si sente una rarità antropologica, dotata di uno straordinario DNA, in un mondo popolato da scimmie. Lui, la cui esistenza è un florilegio di no lungo trentuno righe. Lui, che diffida di preti e frati, di psichiatri e psicologhe, che sospetta di “tutte le sottane” e di coloro che sostengono di possedere la verità.
Narcisista, misantropo, misogino, dissacrante, irriverente, sarcastico, iperrazionale sessuomane, solipsista, sboccato, querulo, anaffettivo, paranoico, logorroico (e l’elenco potrebbe avere seguito), l’avvocato Borrani, che nell’irriverenza e tracotanza rimanda a fantiani personaggi, seppur talvolta possa apparire sgradevole, conquista, oltre che per quell’attrattiva che sempre si accorda alle simpatiche canaglie, anche per l’inevitabile identificazione in e condivisione di molte sue idiosincratiche esternazioni e immagini gergali.

Viviamo nel Kali Yuga  l’era oscura, zeppa di conflitti e ignoranza spirituale, nel regno della quantità, dello sviluppo materiale e della regressione spirituale, dove conta solo la ricchezza e sono disprezzate l’intelligenza e la saggezza, e regnano il sadismo e la forza fisica, le menzogne e l’immoralità, la lascivia e la corruzione, la frode e l’affarismo.”

Ma dovendo talvolta l’avvocato “farsi facchino dell’anima, sollevatore di pesi di coscienza”, si prospetta un ravvedimento finale, una sua santificazione, nonostante egli affidi “l’unica speranza di cambiare se stesso all’ipotesi, del tutto irrealizzabile, che scoppi una guerra giusta per cui egli sia chiamato a combattere.”
In una prosa incalzante, a tratti volutamente scurrile, che si intreccia con un linguaggio idiomatico toscano, dove un vortice di associazioni mentali, metafore gergali e allitterazioni giocano con l’equivocità (e con il lettore), si spiega, oltre al giallo, un esondante flusso di coscienza (e incoscienza), un vibrante e introspettivo soliloquio (virante a tratti in un consapevole vaniloquio), in cui l’autopsicanalizzante Borrani riflette profondamente su se stesso e su quanto lo circonda.
Ma io . . . che animale sono?” Forse a Livorno, tra il XX e il XXI secolo, in un antico palazzo del quartiere Venezia, viveva un Orso selvatico di nome Leopoldo Borrani.

Recensioni

Leave a Reply