
Si sente una rarità antropologica, dotata di uno straordinario DNA.
È narcisista, misantropo, misogino, misoneista, passatista, dissacrante, sarcastico, iperrazionale, sessuomane, solipsista, sboccato, querulo, anaffettivo, paranoico…
È l’avvocato Leopoldo Borrani che, benché talvolta possa apparire sgradevole, conquista sempre, non solo per quell’attrattiva accordata alle simpatiche canaglie, ma anche per l’inevitabile condivisione di molte sue idiosincratiche esternazioni. Nato dalla penna dell’avvocato e scrittore reggiano Giuseppe Benassi, il collega virtuale è il protagonista seriale di otto romanzi – ultimo è “Una favolosa eredità” per Extempora Edizioni – , noir e gialli giudiziari, ambientati in Toscana, a Livorno, dove l’avvocato Benassi abitualmente si reca nella casa di famiglia.
Mente raffinata e affilata, l’avvocato Benassi doppia, con voce ironicamente nevrotica, il suo alterego, il quale, talvolta, ritiene di doversi “fare facchino dell’anima, sollevatore di pesi di coscienza” nello svolgimento della sua professione.
“I confessori sarebbero i più grandi romanzieri che il mondo abbia mai avuto se potessero raccontare le storie che vengono sussurrate loro all’orecchio nel confessionale” recita, infatti, J.A.Barbey d’Aurevilly nell’esergo di “Spiriti animali”, quasi una sublimazione, ‘surreale’ e ‘legale’, dell’attività in potenza del suo doppelgänger.

Avvocato Benassi, il protagonista dei suoi romanzi, l’avvocato Leopoldo Borrani, risulta essere un inveterato detrattore riguardo all’avvocatura stessa (“l’avvocato è un vampiro stimolato dall’immagine del sangue, quasi peggio degli strozzini”), ai clienti (“il cliente è il peggior nemico dell’avvocato”), alle storture della giustizia e a quelle della magistratura. La scrittura potrebbe rappresentare un canale comunicativo per esprimere ciò che altrimenti non direbbe?
In generale, io manifesto apertamente tutte queste opinioni, non ho più nessuna remora sotto questo aspetto. Effettivamente, una certa rabbia è un buon carburante per scrivere, ma per me funziona sporadicamente, per scrivere in piccola parte e non come principale motore di una storia.
E qual è questo motore?
Io parto da un luogo. Devo avere una cornice geografica precisa, reale, e lì nasce l’ispirazione. È sempre successo così: quando c’è un luogo che mi colpisce, esattamente lì inizio a vedere i personaggi che si muovono e ad attivare l’immaginazione, e quindi ad inventare una trama.
Il romanzo “Tra le tue sgrinfie”, in cui l’avvocato Borrani non è esattamente protagonista rivestendo un cameo, si svolge in un luogo sordido e promiscuo, con personaggi ambigui e immondi “tra la melma e la mota”, un inferno in cui il protagonista, compagno di scuola dell’avvocato, si ritrova per una serie di disavventure. Com’è nata questa storia?
Un mattino di gennaio, non sapendo cosa fare, sono andato a Pisa, ho posteggiato la macchina nel parcheggio sotterraneo davanti alla stazione, un posto orrendo, e ho cominciato a girare per questo brutto quartiere, pieno di quei negozi di extracomunitari e in cui si trovava anche un antiquario, in realtà un finto negozio d’antiquariato dove risiedeva il boss della malavita locale. In un’ora mi è venuta in mente l’intera trama del romanzo, ho immaginato tutta la storia in quel luogo laido.
Avvocato, non ha mai pensato di dedicarsi esclusivamente alla scrittura?
No. No perché sono trascorsi anche quattro anni senza che scrivessi una parola.
Come prende vita il personaggio di Leopoldo Borrani?
Penso semplicemente che, in buona parte, si scriva di ciò che si vive e di ciò che si conosce. Così, essendo io avvocato, conoscendo e vivendo quel mondo, l’ho trasposto nel romanzo e ho creato come protagonista un avvocato. L’unica cosa che ho fatto è cambiare città. È un aspetto, questo, molto rilevante senza il quale non sarei mai riuscito a scrivere. Sarebbe stato impossibile raccontare di Reggio e dei reggiani. Portare tutto altrove, vedere la città da un’altra prospettiva e trasfigurarla, mi ha permesso di scrivere. Inoltre, ho trovato luoghi che descrivo sempre con precisione, luoghi visti da adulto, quindi, con occhi freschi. Ormai Reggio io non la vedo più, da quando sono nato giro per la via Emilia ma non vedo più nulla. Non ho più la meraviglia, che è la fonte di tutto. A trent’anni ho iniziato ad andare a Livorno e l’ho guardata con occhi nuovi, quindi sono riuscito ad ambientarci un romanzo.
In che senso non vede più nulla girando per Reggio Emilia?
Nel senso che non si vede più ciò cui si è troppo abituati.
Si può definire l’avvocato Borrani il suo alterego?
Sì. Con delle differenze volute.
E cosa vi accomuna?
Beh, la professione, l’insofferenza, l’impazienza, i mutamenti di umore, la lunaticità e, quindi, anche l’incostanza, e una certa dose di nevrosi.

Trae ispirazione dai suoi casi? Il suo ultimo titolo è “Una favolosa eredità”. Le è mai capitato il caso di una favolosa eredità, da un milione e 200mila euro?
Beh sì, non così favolosa come nel romanzo, però indubbiamente ho visto degli eredi litigare furiosamente per un’eredità.
La sua prosa è ricercata ma è spesso accompagnata da venature scurrili. Come mai questa scelta?
È una caratteristica della Toscana, soprattutto di Livorno, usare volontariamente un linguaggio volgare come modo di essere, per non essere mai ipocriti, per trattare il prossimo ‘a pesci in faccia’ che è molto meglio del perbenismo: e qui si evidenzia una forte differenza con gli emiliani… Tante moine: “Ma come sei bella oggi. Come ti vedo bene! Hai cambiato parrucchiere?”.
Là ti vedono e ti coprono di ‘insulti’: “budello di tu ma”, ti dicono.
Sono persone coltissime e contemporaneamente volgarissime, ma si tratta di una volgarità fra virgolette, perché sono di una raffinatezza assoluta, anche proprio estetica.
Un esempio per me esemplificativo è Paolo Poli: un uomo di una cultura e di un’intelligenza immense, e anche di una cattiveria intelligente. Mi riferisco ad un ostentato disprezzo per determinate forme di estetismo troppo raffinato.
E poi pensiamo a Dante: “vidi un col capo sì di merda lordo, che non parëa s’era laico o cherco”. Quando deve usare le parole le usa e non lo si può, certo, accusare di volgarità.
Suo padre è uno psichiatra. Nei suoi romanzi l’elemento psicologico è molto approfondito, illustra con dovizia di particolari la psicologia dei personaggi. In uno dei suoi romanzi si riferisce alla passione di studiare “l’infinita avidità e imbecillità umana” come movente all’avvocatura di Borrani. L’ha influenzata la professione di suo padre, anche indirettamente?
Mi ha influenzato senza che me ne rendessi conto: da quando sono nell’età della ragione sento delle diagnosi, su tutti. Non potete neppure immaginare cosa dicono gli psichiatri dell’umanità.
Tra l’altro ‘imbecillità’ è un termine psichiatrico. Quando sento mio padre pronunciare le parole ‘cretino’ e ‘imbecille’ si riferisce ad un lessico psichiatrico usato in alternativa al termine più tecnico e più preciso ‘oligofrenico’, riferito a ‘persona con limitatissime o nulle capacità cognitive’.
Certamente, guardando la televisione con mio padre è capitato che ascoltando qualcuno gli facesse la diagnosi psichiatrica e questo inevitabilmente io l’ho assorbito.
Ha affermato di essere stato influenzato nella scrittura dalla pittura surrealista…
È una cosa strana… ho iniziato a scrivere verso i quarant’anni, quando la pittura surrealista ha aperto una finestra nel mio cervello verso la creatività, senza saperne il motivo. Forse perché mi ha insegnato la possibilità non solo di rappresentare ma anche di deformare la realtà o comunque di vedere una realtà che non c’è, una su-realtà. Quindi, di immaginare.
Il Surrealismo è una manifestazione onirica anch’essa molto ricorrente…
Infatti. La pittura surrealista è nata dopo Freud. Dopo la scoperta dell’inconscio dove tutto può accadere, i pittori hanno iniziato a dipingere realtà immaginate, invisibili, realtà ‘altre’, quelle, appunto, dell’inconscio. Quindi questo passaggio anche verso l’onirico è avvenuto attraverso la pittura surrealista che, ripeto, per me ha rappresentato uno degli innamoramenti culturali più forti.
Salvador Dalí diceva “il surrealismo sono io”. Lei avvocato si ritiene surrealista?
No, perché il surrealismo dà l’idea di una seconda realtà, mentre io parto sempre dalla prima, cercando l’aderenza alla realtà, anche se poi, talvolta, in questa ricerca ci si affaccia su un altro mondo. Per me, però, il punto di partenza, è sempre un solido realismo, una solida aderenza alla realtà.

Onnipresente nei suoi romanzi è anche l’arte in diverse sue declinazioni, pittura, architettura, musica. Strumento contraltare per le brutture della società?
Beh, questo non solo nei libri, ma anche nella vita. La natura e l’arte sono le cose che rendono la vita passabile e sopportabile, altrimenti sarebbe veramente insopportabile. Quindi, prima ancora che ingredienti di un romanzo, rappresentano una questione esistenziale: passo dalla mia esistenza in cui, appunto, l’arte e la natura rivestono un grande valore proprio come momenti di godimento rispetto alla maggior parte dei momenti di dolore e di noia, al romanzo dove riproduco lo stesso meccanismo.
Una società che, tra l’altro, lei critica spesso, e forse più aspramente nell’ultimo romanzo: “società impazzita”, “follia contemporanea”, “cunicoli fognari dell’umanità”. Ritiene ci possa essere una redenzione per l’essere umano? Una possibilità di riscatto?
Per l’essere umano forse sì, mentre vedo sempre peggio la società. Negli ultimi quattro anni, abbiamo assistito ad un peggioramento clamoroso e inaspettato che mi induce al pessimismo. Con il covid abbiamo raggiunto e sopportato delle limitazioni alla libertà di fronte alle quali quasi nessuno ha protestato. Stessa cosa dicasi per le due guerre: sembra che nessuno si scandalizzi o protesti, anzi pare che, soprattutto, una venga fomentata. In generale, penso che la direzione sia sempre più verso il basso. Pensiamo al livello dei politici di oggi, un livello infimo. Da quarant’anni, quindi, dopo Moro, dopo Berlinguer c’è stato un declino spaventoso nella qualità intellettuale, professionale ed etica, sino ad arrivare agli episodi cui stiamo assistendo in questo periodo. Vedo, poi, il cinema italiano spaventosamente crollato, come anche la letteratura…
A proposito di cinema. Nei suoi romanzi sono ricorrenti la multiculturalità, la multietnicità, la fluidità di genere, personaggi caricaturali, la rappresentazione drammatica, comica e grottesco della vita. Elementi che, grazie anche alla sua narrazione visuale, mi riportano a fotogrammi dei film di Ferzan Özpetek. Si ritrova in questo?
Özpetek non è tra i registi che stimo di più al mondo, però certamente ritrovo delle comunanze come anche il sottolineare il lato scuro – molto profondo secondo me nei suoi film – contemporaneamente al lato allegro e solare. Quindi, certamente questo alternarsi di luce e ombra, di bellezza, di allegria, ma anche di profonda tristezza ci accomuna.
Luce e ombra, appunto. Quasi sempre nei suoi libri c’è la rappresentazione del demonio. Perché questa presenza?
Questo è un mistero anche per me. Da decenni non sono cattolico, ma ad un certo punto della mia vita ho riscoperto questo personaggio – chiamiamolo pure personaggio – il demonio, che è, tra l’altro, il protagonista, di un mio romanzo inedito, per scrivere il quale ho letto tutta la letteratura demonologica. Il demonio, Satana è una creatura della religione cristiana. Io non mi definisco né cristiano né credente, non sono credente nel Dio cristiano, ma certamente sento la figura del demonio. Nel romanzo “L’omicidio Serpenti o L’enigma del Bosco Sacro” parlo della gnosi, un’eresia per i cristiani, che ipotizza il demonio come il Demiurgo, il creatore del mondo. Nei miei romanzi, dunque, riporto, alcuni elementi della religione che mi colpiscono e che mi turbano.
Non pensa di pubblicarlo?
Non sono assolutamente convinto della sua qualità. Ho, infatti, ricevuto una proposta di pubblicazione ma l’ho rifiutata. Forse proprio perché è un argomento molto dileggiato. Si corre il rischio di essere tacciati per squilibrati mentali, per degli ‘imbecilli’. Sono abbastanza convinto che determinati argomenti provochino un’immediata reazione di rifiuto anche in un editore. È molto diffuso questo atteggiamento, penso, quindi, che non lo pubblicherò mai.
Vedo l’avvocato Borrani perennemente nel circolo vizioso nietzscheiano tra apollineo e dionisiaco, tra prigione e fuga, stasi e caos, amore e morte, “rassicurante mediocrità” e follia, ragione e istinto. La scrittura, quindi, si può definire come un’attività sincretica?
Sì, Borrani è sempre in bilico, si barcamena tra atteggiamenti, tra mondi diversi, anche tra il male e il bene, tra il laido e il sublime.
E, quindi, sì, la scrittura in questo caso mira a riunire aspetti opposti.

Il tempo passa anche per l’avv. Borrani, che, nell’ultimo libro, si sente un po’ invecchiato, adagiato, un po’ depresso. Avvisaglia di un nuovo personaggio già in cantiere che lo spodesterà?
No. Nessun nuovo personaggio. È vero che Borrani si sente così, ma ciò non esclude che prossimamente torni più vitale. Ogni tanto si verificano delle ciclicità, capita di non voler più lavorare e poi, invece, tutto cambia. Non voglio storicizzare troppo e, quindi, non penso nei prossimi libri di “mandarlo” in pensione… ecco questo no.
Nell’ultimo romanzo definisce Borrani come “un feroce passatista”…
Questo si collega a quanto dicevo prima in merito alla tendenza di vedere tutto andare sempre peggio. È il tipico atteggiamento del passatista elogiare il passato e criticare il presente, ma sono consapevole che questa non sia una visione oggettiva della realtà in quanto non si considera mai che nel passato, per altri aspetti, è evidente che si stesse peggio. Il tipo psicologico – torniamo alla psicologia – del conservatore, del reazionario, del passatista, è il lodatore del tempo passato. Comportamento già appartenente ai romani dell’Impero rispetto ai romani della Repubblica. Quindi, pur essendo anch’io un passatista, sono comunque conscio di stare attuando una ricostruzione della realtà, in parte, molto discutibile. Indubbiamente, questo lato antimoderno e passatista è una caratteristica psicologica di Borrani.
Un passatista e pure misoneista, respingente i progressi tecnologici. Nell’ultimo romanzo c’è una dettagliata descrizione del suo studio definito come “locus amoenus”, per non dimenticare la sua dote di amanuense. È una critica alla prepotenza tecnologica?
Sì, anche.
Borrani non tiene il pc nel suo studio, sta avviandosi ora verso il telefonino, ma di fronte al nuovo il suo atteggiamento è di rifiuto: “No! Io il telefonino non lo prenderò mai e voi siete tutti dei deficienti che ci passate le giornate attaccati”. La sua prima reazione è pensare che l’umanità sia impazzita a trascorrere ore incollata al telefono senza, così, vedere più nulla, il sole, le stelle, le colline. Tutto, però, raccontato e vissuto sempre con molta ironia, perché ovviamente io so che lo smartphone è magnifico se usato con intelligenza.
“Una favolosa eredità” si discosta dai precedenti titoli in quanto più tecnico e molto più articolato. È molto più giallo giudiziario…
Sì, è così. È più sviluppato. Inoltre illustro nel dettaglio i processi, le cause civili e penali, le arringhe degli avvocati, ho addirittura inserito un’intera perizia psichiatrica. Questo inizialmente mi aveva molto frenato temendo di annoiare i lettori. Poi, l’ho interpretata come una caratteristica, una novità, che può non piacere a tutti. Ma come ci sono gli amanti delle serie mediche, così possono esserci gli appassionati delle cause civili e penali. Ripeto, magari rischio la noia… però, pazienza.
Da amante degli antichi, l’avvocato Borrani definisce ‘Le metamorfosi’ di Ovidio un capolavoro letterario, lamentando la non conoscenza dei poeti da parte degli scienziati. Avvocato Benassi, se si leggessero un po’ di più i poeti come sarebbe la società?
Qui ritorniamo al discorso della lode del passato. E comunque ‘Le metamorfosi” è un testo che sbalordisce chiunque, al di là del fatto che la scienza alla fine raggiunga le stesse conclusioni, però, io negli antichi trovo una capacità di immaginazione inesistente altrove. Quindi… viva Ovidio!