3 Gennaio 2022

“Una risata ci salverà”

«Nel teatro si dice che ci sia un unico modo per sbagliare: non fare.
E così ho fatto.»
E così ha fatto MATTEO RAZZINI, affiancando la propria firma a quella di Ezio Comparoni, alias Silvio D’Arzo, in “Una storia così“, il racconto per ragazzi rimasto incompiuto a causa della prematura scomparsa dello scrittore reggiano.
Matteo Razzini è scrittore, attore, studioso dell’arte del Clown, nonché educatore teatrale per adulti, per persone fragili e nelle scuole dell’infanzia, primarie e secondarie di primo e secondo grado su tutto il territorio nazionale. Insieme con l’illustratore Giuseppe Vitale, ha dato letteralmente vita ad “Una storia così” grazie alla felice intuizione della Casa Editrice Corsiero, nella persona di Andrea Casoli, guidati da una disarmante libertà in cui le parole e le immagini hanno trovato la propria voce.
Anima poetica, inquieta, istrionica e circense, Matteo Razzini è un eterno sognatore, come il suo collega del resto, tuffatisi entrambi tra le righe di questa storia così dal trampolino di una dirompente e salvifica immaginazione.

Matteo, come hai accolto la proposta dell’Editore di portare a termine il racconto incompiuto “Una storia così di Silvio D’Arzo?
Se me lo avesse chiesto a bruciapelo, all’ignaro e all’oscuro di tutto, probabilmente non avrei accettato: la paura e il senso di inadeguatezza mi avrebbero sopraffatto. Fortunatamente Andrea Casoli (titolare della Casa Editrice Corsiero, ndr), ha agito d’astuzia chiedendomi semplicemente di leggere il racconto incompiuto. Naturalmente me ne innamorai e a quel punto potevo dire solo “sì!”.

Come hai proceduto? Ti sei documentato sulla sua figura?
Andrea è un grande appassionato darziano. Sotto suo consiglio ho letto l’opera omnia di Silvio D’Arzo.

Avverti qualche affinità con Silvio D’Arzo scrittore e uomo?
Sono affine al senso di fragilità che Ezio Comparoni riconosceva in se stesso, ma contrariamente a lui – e grazie al lavoro teatrale sulla figura del clown che da tempo porto avanti – scelgo la libertà di essere (di essere colpito anche)… anche perché mi sono nascosto sin troppo nell’adolescenza.
Per ciò che riguarda la scrittura, beh…che dire? Il suo è un talento puro. Emularlo sarebbe stato stupido e insensato. Ho optato per l’unica scelta che ritenevo giusta: Abitare la sua casa, essere me stesso e divertirmi.

Cosa ti ha insegnato l’arte del Clown?
A vedere rotondo ciò che è quadrato. Dubbioso ciò che appare certo. A non cedere all’abitudine. A ridere di me.

Nel testo hai introdotto un alter ego, Nino. Che bambino era Matteo Razzini?
Nino è nato in un momento di impasse. Quando scrivo, spesso attingo dalle immagini del mio vissuto (sia reale che fantastico). Tutto si mescola e tutto si trasforma. Alla fine, involontariamente, ho creato un parallelismo con la figura autobiografica di Teddy Ted (Silvio D’Arzo, ndr). Nino è un bambino nel vero senso della parola perché in lui pensiero e azione sono la stessa cosa. Vive nei suoi opposti e ogni volta che cade si rialza… proprio come fanno i clown. Matteo Razzini era il bambino che sognava di essere Nino.

Come nasci scrittore? Hai anche ottenuto importanti riconoscimenti come il Premio Andersen Baia delle Favole nel 2010…

È strano perché la parola scrittore, a volte, mi appare spigolosa. Preferisco l’immagine morbida di C. L. Candiani “Io non sono uno scrittore. Io abito il silenzio e nel silenzio le parole giungono a me“. Amo la poesia. I miei turbamenti d’animo, nell’infanzia prima e nell’adolescenza poi, hanno trovato accoglienza in un foglio di carta bianco (senza righe né quadretti) e in una penna.
Il premio è stato fondamentale: ha dato voce ai miei sogni e alle mie incertezze.

Dalla tua postura e dal tuo eloquio giocoso e “leggero” traspare, infatti, un’anima poetica e un po’ inquieta. Affermi di essere attratto dalla fragilità dell’essere umano…
Tutto ritorna al clown, all’essenza dell’uomo, allo stupore primordiale, al gioco e allo sguardo bambino. Noi crediamo che la nostra fragilità, la nostra nudità ci renda risibili e allora – complice lo sguardo altrui che genera finzione in noi – ci copriamo con strati e strati di materiali diversi credendo di essere giusti e belli. Da questo nasce il paradosso del vivere quotidiano e il grande teatro che ogni giorno mettiamo in scena.
La fragilità è scarpa usata come  il telefono con il quale puoi chiamare Dio (che poi non risponde perché è impegnato a saltare nelle pozzanghere a piedi uniti, schizzandosi tutto).

Una storia così è un’esplosione corale, di voci, di colori, di personaggi, Qual è la figura che più ti incuriosisce?
Corcoran, sicuramente. Un uomo risibile che vive abbracciato ai suoi paradossi; con pochi strumenti per comprendere se stesso e gli altri; con un alfabeto emotivo poverissimo e un ego smisurato… che tragedia di vita. Ridiamo di lui! Ma ridendo di lui non facciamo altro che ridere di noi stessi. Tuttavia c’è anche speranza per lui. Chi viene toccato non resta imperturbato.

Sei molto impegnato anche in qualità di educatore teatrale per ragazzi, adulti e persone fragili. Sostieni che l’immaginazione sia quasi merce rara. Come rispondono i giovani in questi incontri?
I bambini e i ragazzi sono i miei più grandi maestri: è meraviglioso abbassarsi alla loro altezza!
Talvolta è difficile non perché manchi in loro l’immaginazione, direi piuttosto l’entusiasmo. Insomma, si scordano di essere Dio.

Cito dalla tua biografia: “Mi piace pensare alle mie storie come atti unici di un’unica extra ordinaria quotidianità; ovvero come cogliere in un gesto artistico l’insieme insensato della vita.” La vita: bellezza e crudeltà. Nella bellezza risiedono anche il suo “non senso” e i suoi paradossi. Arte, dunque, come interprete della bellezza insensata della vita? Come atto esorcizzante?
Il mio maestro dice sempre che noi viviamo come se camminassimo a piedi nudi sui sassi acuminati, tenendo le scarpe in mano e lamentandoci continuamente del male ai piedi. Questo è l’insieme insensato della vita. Giocare con questo, ridere di noi stessi, equivale a salvarci.

Scrivi che “ti perdi continuamente” e che da piccolo “sognavi di poter saltare dentro ai libri”. Un desiderio, quest’ultimo, tuttora vivo. Con “Una storia così” hai finalmente realizzato questo sogno…
Se si parla di sogni spero di non sentirmi mai troppo realizzato o appagato, o sazio.
Fino alla fine vorrei continuare a vivere e a sognare all’interno delle storie dei libri e mi auguro che questo testo possa fare da ponte o da lume per coloro che stanno cercando l’immaginazione e non la trovano.

Quali sono le tue letture, i tuoi autori preferiti?
Mangio tante crudités di poesia. Sono ingordo di intingoli classici (e in questo mi ritrovo tanto in D’Arzo), tantissimi dolci albi illustrati e racconti e romanzi per ragazzi.

“Una storia così” è un manifesto sull’importanza della libertà e sul potere dell’immaginazione. Quale pensi sia attualmente il loro stato?
Mi piace pensare all’equilibrio degli opposti. Qual è lo stato attuale di libertà e immaginazione?
Viviamo sulle montagne russe: c’è il momento in cui si tocca il cielo con un dito e quello in cui si sprofonda dentro uno squarcio della terra… ma è tutto troppo veloce. Alle volte però occorre scendere dall’ottovolante, aspettare che passi il vomito e guardare da un’altra prospettiva.

Nel libro parli del “disincanto”. Cosa intendi?
L’oblio. La dimenticanza di cui parlava Pamela Travers in Mary Poppins. Tutti nasciamo come esseri magici…però, poi, crescendo, ce ne scordiamo.

Lungi dal voler essere misoneisti, ritieni, tuttavia che la tecnologia, oggi, per i bambini e gli adolescenti possa creare più danni che benefici? La creatività certamente ne risente in negativo…
Tutta la tecnologia che al posto nostro si occupa di usare l’immaginazione, per me è deleteria. Se, invece, giocando a un videogioco, dopo un po’ sento l’impellenza di andare a brigare in garage o in cantina, usando materiali diversi e con quelli costruire l’immaginario dentro al quale diventare protagonista e attore… allora ben venga!

La poetessa Mariangela Gualtieri scrive: “Non facciamo che udire parole funebri. L’assillo quotidiano sull’orrore del mondo e dell’uomo suona alle mie orecchie come solfa del malaugurio. Ringrazio chiunque mi porti una parola luminosa”.
Sono certa che ai bambini, agli adolescenti, anche agli adulti, tu riesca in questo intento, in questa necessità – penso – oggi più che mai universale….
Credo anche io, fortemente, alle parole di Mariangela Gualtieri. Ma il rapporto con i bambini, i ragazzi e gli adulti è fluido: lo scambio, se si è predisposti all’accoglienza, è vicendevole.

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