«L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà;
se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme.
Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più.
Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»
Italo Calvino
‘Le città invisibili‘

«Le donne per molto tempo sono state custodi silenziose del potere e hanno colmato dei ‘vuoti’ lasciati dagli uomini, ma da tempo le cose sono cambiate. Sono in atto molte trasformazioni: un processo endogeno, ovvero cambiamenti in seno all’organizzazione sia a livello di attività illecite, sia a livello strutturale e un processo esogeno che riguarda invece la società nella sua interezza e la condizione femminile in essa. Come il crimine organizzato viene analizzato e inteso, dipende dalle lenti utilizzate per guardare il fenomeno.»
Così scrive Federica Iandolo in ‘Madrine di ‘ndrangheta’. Le lenti da lei utilizzate per sondare e analizzare la dimensione delle donne nella ‘ndrangheta sono quelle sincretiche e trasversali di un approccio giuridico, sociologico, psicoanalitico, quasi antropologico. Ha esaminato sentenze, compulsato documenti processuali, letto saggi, consultato dati di Associazioni come Antigone, intervistato giornalisti, magistrati della DDA e non, avvocati, forze dell’ordine, e poi ha incontrato e intervistato le donne, le “madrine” che a diverso titolo, volontariamente, surrettiziamente o inconsciamente, sono entrate nell’organizzazione criminale.
Giurista e ricercatrice indipendente di Reggio Emilia, Federica Iandolo con “Madrine di ‘ndrangheta”, prefato da Anna Sergi ed edito da Compagnia Editoriale Aliberti, consegna un reportage dovizioso e puntuale sul ruolo della donne nella ’ndrangheta, ponendo i riflettori su un universo sommerso e molto complesso, in cui “l’Io coincide col Noi”, e che tutt’oggi rimane ancora parzialmente in ombra.
Identità plurali di una mafia che si è fatta sistema – come acclarato – anche qui in Emilia, “la terra di denari”, teatro del maxiprocesso Aemilia e del procedimento, quasi tacitato, Grimilde. Una terra che continua ad essere il centro di riferimento per il nord della ‘ndrangheta avendo eretto una pervasiva rete di protezione.

Dott.ssa Iandolo, lei scrive che “Madrine di ‘ndrangheta” possiede due anime di cui la prima è quella che l’ha portata a studiare, a fare ricerche. Che anima è quella che l’ha indotta a dedicarsi a questo tema?
La “seconda anima” è quella che si e introdotta in itinere nel mio lavoro, cioè il racconto delle storie delle donne intervistate. Si può dire che la teoria si è improvvisamente calata nella realtà di queste donne di cui poco si sa. Ho scritto questo libro proprio perché ho percepito, parlando con magistrati, giornalisti e avvocati, una certa difficoltà nel delineare il loro vero ruolo.
Leggo sempre con attenzione le epigrafi dei libri. Ha scelto lei le due citazioni in esergo all’opera? La prima è una strofa della canzone “Spirit in the sky” dei Doctor and the medics, mentre la seconda appartenente a Daniela Brogi afferma che per illuminare uno spazio così fuori campo (nella fattispecie, suppongo si riferisca al ruolo della donna nella ‘ndrangheta) servono altre parole e nuove inquadrature. E lei, infatti, parla dell’urgenza di una nuova sintassi per descrivere il ruolo della donna in questa organizzazione criminale, della necessità di cambiare angolatura, prospettiva. Cosa intende?
Sì, le ho scelte io per motivi diversi e in momenti diversi. La Brogi perché in un suo libro parlava di uno spazio che le donne devono sempre conquistarsi e mi ci sono ritrovata molto, visto che ho deciso di seguire il mio sogno (scrivere) facendo un esercizio di coraggio, cambiando la mia vita in un’età non proprio giovanile. E questo stesso discorso si applica anche alle donne che ho studiato: anche loro reclamano uno spazio, alcune per diventare importanti nel clan, altre per rifarsi una vita lontane dal crimine. I Doctor and the Medics sono un omaggio a mio padre, scomparso poco prima dell’uscita del libro. Lui è il mio “Spirit in the sky”.
E la necessità di adottare nuovi occhi e angolature significa che bisogna abbandonare il precostituito, gli stereotipi che si sono posati da decenni su queste figure. E siamo già molto in ritardo, perché i cambiamenti nella ‘ndrangheta sono più veloci di quanto si pensi.
Cos’ha provato nello scrivere questo volume? Ha mai avvertito timore o paura?
Durante la raccolta, la consultazione del materiale, durante le interviste, gli incontri ha incontrato resistenze da parte di qualcuno?
Ho provato una grande soddisfazione e un senso di completezza, specie alla fine. Un po’ come quando si vive una gestazione e si aspetta con ansia di vedere il frutto della nostra pazienza e dedizione. No, non ho mai avuto timore e paura, ma molti mi fanno questa domanda. Forse ho una percezione tutta mia del rischio, ma non mi sono mai sentita in pericolo, almeno sino ad ora. Diciamo che più che resistenze nel raccontare le proprie esperienze, ho avuto la sensazione che qualcuno non volesse condividere con me le sue informazioni.
Perché si parla di “vuoto normativo” in riferimento al coinvolgimento delle donne in questa organizzazione criminale?
Perché per decenni è esistita una sorta di extraterritorialità giuridica al riguardo, come un’impunità di genere, ovvero, la donna non potendo essere formalmente parte dell’organizzazione criminale, non poteva, quindi, essere oggettivamente condannata per associazione mafiosa. Una cosa completamente fuori da ogni logica, le donne sono l’humus vitale che assicura coesione e futuro all’organizzazione.
La ‘ndrangheta viene descritta come organizzazione maschile. Nel suo lessico, tuttavia, ricorrenti sono le parole madre, terra, famiglia, cordone ombelicale, quasi una lingua atavica.
Questione di genere anche nelle organizzazioni criminali, dunque…
La ‘ndrangheta è femmina. Non è una conclusione a cui sono arrivata solo io, ma studiosi come Anna Sergi o giornalisti esperti della materia. Le simbologie, i riti, le definizioni, sono tutte femminili. La culla della ‘ndrangheta, il Paese di San Luca in Aspromonte, viene chiamato “la mamma” e proprio in quel luogo, in un santuario Mariano, vengono stabilite le strategie criminali che vengono poi eseguite in tutto il mondo. Sono arrivati fino in Canada o in Australia, ma è dalla “mamma” che prendono ordini.

C’è differenza tra il pentitismo nella ‘ndrangheta e quello nelle altre organizzazioni criminali?Certamente sì. Quando collaborare con la giustizia significa causare la disgregazione della famiglia (perché purtroppo sappiamo che famiglia criminale e biologica nella ‘ndrangheta coincidono) interviene una resistenza enorme. I legami di sangue sono forti e serve una grande motivazione. Sono pochi i pentiti di ‘ndrangheta, ancora meno le donne e alcune hanno pagato con la vita. In Cosa Nostra il legame di sangue non è così fondante e le cose cambiano, anche se le donne restano sempre un passo indietro. Nella camorra esistono clan che nascono per compiere crimini e controllare un territorio e poi si sfasciano, è facile che si tradiscano tra loro, è tutto molto più fluido.
Cito dalle sue pagine: “Scrivere significa navigare, percorrere sentieri in parte sconosciuti con una mappa in mano, ma non basta, è giusto perdersi, fermarsi e cambiare strada”.
Qual è l’approdo che l’ha più colpita o meravigliata o sconvolta di questo viaggio?
Sicuramente è stato capire quante diverse figure femminili esistono nella ‘ndrangheta, magari con piccole sfumature rispetto ad altre ma pur sempre differenti. Difficile darne una definizione unica e questo lo trovo molto stimolante.
Leggendo, infatti, il suo libro appare chiaro che non sia possibile disegnare un identikit della figura femminile nella ‘ndrangheta. Quali sono i diversi profili di donne che ha studiato, incontrato, raccontato?
È una questione a cui tengo molto. Non esiste un prototipo, come tutte le altre donne sono diverse tra loro e diversi sono i ruoli che ricoprono o non ricoprono e l’indipendenza che hanno nel clan. Ho parlato di donne boss, che comandano e sono molto più cattive di alcuni uomini; ho parlato di donne che vivono all’interno del nucleo famigliare e agiscono tramandando ai figli le regole della cultura mafiosa; ho parlato di donne vittime che vogliono scappare e riappropriarsi della loro vita e darne una migliore ai figli.
Attua una distinzione tra donne di ‘ndrangheta cresciute al Sud e donne cresciute al Nord. Qual è la differenza?
Sì, la geografia ha una sua importanza. Ho notato che le donne nate al Nord che vengono a contatto con ambienti di ‘ndrangheta sono molte volte fuori dal contesto famigliare, sono indipendenti e hanno competenze lavorative proprie. Due esempi sono Roberta Tattini di Bologna, che andava agli incontri d’affari delegata da Nicolino Grande Aracri e gestiva i suoi investimenti in autonomia e sappiamo quanto i soldi siano importanti per queste persone. La seconda è la ragazza tunisina Karima Bachaaoui che lavora in amministrazione per l’azienda di Blasco, gestisce conti correnti in autonomia e partecipa anche agli incontri degli esponenti del clan dicendo la sua opinione. Queste caratteristiche non si trovano nelle donne nate e cresciute nei territori tradizionali di ‘ndrangheta, che sono molto più defilate e vulnerabili perché il contesto famigliare è più difficile, spesso violento. Hanno i loro compiti, sono consapevoli ma per lo più seguono indicazioni.
Ha presentato il suo libro anche nelle scuole? Potrebbe aiutare, secondo lei, a fare comprendere la non immunità di nessuna area geografica dalle associazioni criminali? A fare capire e a individuare i pericoli di tale natura che ci circondano?
L’importanza di agire sui giovani è FONDAMENTALE. Ci sono poi diverse opinioni a riguardo e credo dipenda da dove i giovani vivono. Al Nord ho parlato già alle scuole medie e superiori di diverse tipologie e i ragazzi sono molto reattivi, fanno tante domande. A Reggio Calabria, mi hanno detto di recente che è necessario partire dalle elementari, che un ragazzo o ragazza esposto all’ambiente ‘ndranghetista a 14 anni non è già più recuperabile. L’ho trovata una cosa sconvolgente, ma non dobbiamo dimenticare che il luogo in cui si cresce fa la differenza. Quando torni a casa che discorsi senti? A volte a quell’età già “lavorano” per il clan e guadagnano in una settimana più di quello che prende un loro docente al mese.

Le nuove generazioni di donne nella ‘ndrangheta sembrano essere più colte, più indipendenti… secondo lei è uno specchio ‘dell’emancipazione’ (termine cui non vorrei ricorrere in quanto il suo utilizzo dovrebbe essere superfluo, tuttavia…) femminile nella società in generale?
La ‘ndrangheta non è più solo sangue e pallottole da tempo, specie nelle regioni più ricche dei Nord, dove per fare soldi ed entrare nell’economia legale bisogna avere una faccia “pulita” e non essere attenzionati dalle Forze dell’Ordine. Per questo motivo, le nuove generazioni studiano, si laureano e diventano professionisti che poi, ovviamente, curano interessi illegali. Non si può certo parlare di emancipazione, alcune studiose usano il termine “pseudo- emancipazione” per indicare un cambiamento che, sì, indica maggiore indipendenza, ma in un contesto criminale che quindi non può emancipare o far evolvere nessuno per definizione. Per questo motivo, credo non si possa considerare lo specchio di ciò che accade nella società in generale dove le donne hanno, comunque, maggiore libertà e consapevolezza, sono due modelli culturali estremamente diversi e con diversi obiettivi.
Tra i comuni negazionisti del Nord Italia figura anche Brescello, teatro del processo ‘Grimilde’, in quanto base di una cellula della cosca Grande Aracri di Cutro. Durante una presentazione del suo libro, ha invitato a fare un “esperimento sociale”: recarsi nel paese della bassa È anacronistica, infatti, la convinzione di possedere gli anticorpi per questo “fenomeno” criminale, al pari dell’idea che il maxiprocesso Aemilia abbia posto fine, debellandolo, a questo “cancro esiziale” come viene definito da Antonio Nicaso e Nicola Gratteri. Ricordo anche le parole del pentito Antonio Valerio che Tiziano Soresina – ‘suo collega di penna’ – nel volume “I mille giorni di Aemilia” riporta: “Non illudetevi che la ‘ndrangheta sia finita con Aemilia” e parlando del passato, presente e futuro della ‘ndrangheta a Reggio Emilia preconizza scenari inquietanti…
Brescello è un paese complicato, ho respirato la stessa aria pesante che ho trovato a Locri. È la sede del clan di Francesco Grande Aracri, anche geograficamente particolare perché incastonato tra tre province (Mantova, Parma e Reggio Emilia). Questo ha permesso all’organizzazione di muoversi facilmente oltre i confini come una piovra. Ci sono state molte resistenze tra la cittadinanza e questo non ha aiutato. È tempo di tornare all’allegria di Don Camillo e Peppone e combattere con decisione tutto il resto. Le parole di Antonio Valerio sono state profetiche, infatti, abbiamo avuto subito dopo il processo Grimilde, un processo di grande importanza ma di cui si parla molto poco, poi Perseverance, un filone di Aemilia e Grimilde, che ha come protagonista uno dei luogotenenti di Nicolino Grande Aracri ed infine Aspromonte Emiliano (nome che sottolinea un certo legame tra i due luoghi), un’operazione che lega l’Emilia e San Luca (“la Mamma” per la ‘ndrangheta) per la gestione del narcotraffico.

È un universo ancora sommerso quello del ‘femminile’ nella ‘ndrangheta. Dott.ssa lei afferma che manca circa il 50% delle condanne di Aemilia e che riguarderebbe proprio le donne.
“Ora sono le donne a comandare da quando i mariti, i fratelli e i cognati si trovano in carcere. La ‘ndrangheta è come l’araba fenice, fra quattro-cinque anni vedrete i cambiamenti, in Calabria ma anche a Reggio Emilia” sosteneva sempre il pentito Valerio al tempo del processo Aemilia.
Reggio Calabria e Reggio Emilia non sono affatto così “distanti” e l’assonanza non è solo sonora…
Con la mia affermazione non volevo dare un numero preciso, si trattava di una provocazione per far intendere che tra le diverse imputate di Aemilia, circa una ventina, solo una è stata condannata per associazione mafiosa. Intendo, inoltre, che in Italia le donne al 41 bis (cioè al carcere duro per associazione mafiosa) sono tra le 12 e 13 unità. Mi sembrano numeri davvero troppo esigui per quanto siano estesi i fenomeni. Molte volte il loro “ essere a disposizione del clan” viene tradotto in reati come intestazioni fittizie di aziende o falsa fatturazione o di favoreggiamento, se ci spingiamo oltre troviamo qualche volta il concorso esterno in associazione mafiosa. Talvolta sono figure importanti per la vita del clan, mi chiedo, quindi, quale sia la linea di confine da oltrepassare perché vengano considerate parte integrante dell’associazione mafiosa e spero che le riflessioni contenute nel mio libro possano dare degli spunti, non certo soluzioni.
Dott.ssa Iandolo, lei sottolinea un aspetto oggi più tecnologico, più digitale dell’organizzazione e parla dei social come importante strumento per il reclutamento…
Gratteri e Nicaso hanno scritto un libro recente su questo argomento. Le tecnologie, la moneta virtuale, i criptofonini ovvero telefonini non intercettabili, i social network, sono tutti strumenti nuovi che sono utilizzati dalla ‘ndrangheta e non solo. I video dei rampolli con auto di lusso, orologi d’oro e ville faraoniche sono specchi per le allodole, per chi vuole fare soldi facili e diventare simbolo di successo. L’altra faccia della medaglia è che vivi per sempre con la morte che ti cammina di fianco, dormi con un’arma sotto il cuscino e devi guardarti da chiunque. Puoi morire o vedere morire i tuoi figli, i tuoi genitori, puoi finire in carcere nemmeno maggiorenne e uscire quarantenne. Ne vale la pena? Ovviamente no, questo non è vivere.
Vorrei citare, infine, Giuseppe Bascietto – altro suo ‘collega di penna’ – che nel libro intitolato “STIDDA – L’altra mafia raccontata dal capoclan Claudio Carbonaro” si dice speranzoso di avere ancora tempo per vivere in una città libera dal giogo criminale: “Sta ai cittadini evitare che la speranza si consumi, nonostante non ci siano ancora i titoli di coda nella lotta alla mafia”, scrive.
Dott.ssa Iandolo, secondo lei, c’è ancora tempo?
Sarei felice di rispondere sì convintamente, ma c’è molta strada da fare e in fretta. Tanto si può fare sui giovani e giovanissimi e tanto sulla comunità. Devono moltiplicarsi gli eventi in cui si parla dell’argomento, dove si fanno circolare informazioni. E’ vitale anche far capire che la comunità deve avere un ruolo chiave, non si può certo pensare di delegare tutto ai magistrati o alle forze dell’ordine. Ognuno di noi deve fare la sua parte, imparare a riconoscere i segnali di eventuali infiltrazioni e denunciare, insegnare ai propri figli un’etica del vivere sociale. C’è ancora tempo per cambiare e diventare migliori, se davvero si vuole.