10 Aprile 2016

“Eravate bellissimi.” E fu poesia

Incontro con Paolo Di Paolo
autore di Una storia quasi solo d’amore

 

 

Un’intuizione. Un’immagine, poetica nella sua essenza e dalla cui dilatazione la storia è nata, svela la genesi di Una storia quasi solo d’amore (Feltrinelli) di Paolo Di Paolo.
Citando Javier Cercas, che molto impavidamente invoca il ritorno del testo narrativo da strumento di puro intrattenimento a strumento di conoscenza profonda, Guido Monti, poeta e critico letterario de il manifesto, ravvisa questa intenzione nell’ultima fatica dello scrittore romano. Un’idea alta di letteratura riverberata, infatti, da una forte declinazione esistenziale connotante i personaggi e da intense accensioni liriche. “La poesia, forse, quale elemento talvolta irrinunciabile del fatto narrativo, benché qui l’impalcatura narrativa sia solida ed esistente.”
La mia tentazione lirica – spiega Di Paolo – nasce da una forma di timidezza nei confronti della poesia, una forma di soggezione e di rispetto massimo. Speculare al medesimo atteggiamento rivolto al teatro.”
La scrittura, dunque, come mezzo per arginare la stessa timidezza che gli ha impedito nella vita di calcare le scene, pur amandole profondamente e facendone, poi, passione spettatrice. La possibilità di interpretare altre vite (“la mia non mi basta“) si è sublimata, tuttavia, nella scrittura, nel rapporto tra sé e sé.
Le pagine di un libro anziché il palcoscenico.
“Stendo il colore poeticamente dove l’aspetto di trama ritengo sia meno rilevante”, afferma, sottolineando la relatività della trama essendo lo stile ad attribuirle attrattiva.

Un’intuizione, e tutto ha inizio, quindi.
Tre sono quelle che, qui, hanno ispirato Di Paolo.
La prima immagine è complice dello “sconosciuto” di Whitman. Lo sconosciuto che passa, ignorando di essere oggetto di desiderio e di ricerca, appartenuto forse anche ad una vita precedente, suggerendo allo sguardo di cogliere “gli sconosciuti come persone che ci ‘appartengono’ o che sono state parte di una vita anteriore“. La sua immaginazione (in)segue, così, quella ragazza che in Santa Maria della Vittoria, la stessa chiesa in cui egli si è riparato per eludere la torrida estate romana, dopo aver brevemente sostato nell’ultimo banco, esce diluendosi nell’abbacinante luce del pomeriggio.

Quasi una sinestesia è, invece, la seconda visione. Una visione acustica, la vista di una frase pronunciata, la vista di una voce che la pronuncia: “Eravate bellissimi.
E fu l’incipit del romanzo. E fu anche l’epilogo, in “una sorta di circolarità poetica.”
È la medesima voce narrante l’intera storia e senza la quale il romanzo ora non avrebbe corpo, concretando quel “miracolo della giovinezza che continua oltre la propria”. Punto di partenza e di approdo del libro.

Al terreno (ma non è l’unico) di scontro/incontro generazionale, tema assai caro all’autore, è connessa la terza immagine: un volantino casualmente rinvenuto che pubblicizza un corso di teatro per anziani. Il teatro è, infatti, “teatro” della dialettica vecchi-giovani con cui egli mira a registrare quella perniciosa sclerotizzazione protagonista della politica dell’ultimo triennio.
Imparare indossando le vesti dell’eterno allievo prescindendo dal dato generazionale, aprioristicamente privo di valore, è un monito vitale: “Le età dell’esistenza non sono compartimenti stagni. Quelle guadagnate non cancellano le precedenti, ma vengono dissimulate risultando invisibili anche a se stessi.” La capacità di individuarle, di identificare negli interlocutori il bambino, il pubescente, il giovane, l’adulto che sono stati, trasformerebbe, infatti, lo scontro in incontro.
“Nella permanenza della giovinezza, possibile laddove uno sguardo o una passione la rendono ancora praticabile come esperienza rara esistenziale, risiede il senso del rapporto tra i vecchi e i giovani di questo romanzo.”
Tutti, al termine dello “spettacolo”, dove insegnamento e acquisizione sono bidirezionali, imparano da e insegnano a tutti: Lei, cattolica, trentenne, complessa, criptica. Lui, ateo, ventenne, “basico”, trasparente. Lei, sessantenne, regista sia della trama letteraria che di quella teatrale, mediatrice tra Lui e “Loro“.

Ma la diversità nel romanzo non è soltanto quella dell’eclatante distanza intergenerazionale, è anche quella di due persone, più prossime anagraficamente seppur forgiate da differenti categorie, impegnate nell’attimo dell’innamoramento. Nell’istante in cui i pregiudizi stratificati e allignati nel naturale usbergo inconscio, nella corazza da tutti indistintamente indossata, deflagrano. Letteralmente.
“È il momento più bello della nostra vita. Incapaci di pregiudizi, subordineremmo qualsiasi informazione alla volontà di conoscere l’altro. Allora, mi interessava portare Lui e Lei nel punto in cui le preclusioni non facessero più spessore.” Scortarli nella dimensione che permettesse loro, l’uno dinnanzi all’altra, nudi e indifesi, di “rimpallarsi” eterne domande ontologiche ed esistenziali.
Parla di teatro, d’amore e di morte Paolo Di Paolo e, nonostante la timidezza dallo stesso acclarata, lo fa con un eloquio incalzante, appassionato e ispirato.
Lo fa citando Tabucchi, scrittore laico, non credente, capace, tuttavia, di una profonda spiritualità, un autore importante per la sua formazione. “I morti sono come cetacei che hanno bisogno di acque acustiche pulite per raggiungerci con il loro sonar“, affermò in un’intervista. E di questa suggestione Di Paolo condivide “quell’eterna presenza dell’unicità di un gesto, di un’inflessione di voce, di un movimento nello spazio.
Chi “non è più”, veglia, “resta vigile allo spettacolo dei vivi, al Teatro della vita cui può suggerire come dal boccascena, ma su cui non ha più possibilità di intervento o decisione. Scrivere di un evento privatissimo come la morte, imprescindibile qui per l’intera narrazione, è stata la parte più difficile.”
Lo spettacolo, comunque, prosegue. Incede nonostante la resistenza di quel mese evanescente, fragile e illusorio. “Del più crudele dei mesi“, del mese che “trema ai vetri”, del mese che “mescola la memoria e i desideri“, in una soluzione di confine tra le possibilità dell’esistenza. Un sogno di primavera che ancora non si manifesta.
“Ho trasformato, quindi, aprile in una cassa di risonanza del lutto, della vita che continua laddove sfugge, avvertendo quel palpitare delle cose nonostante quella resistenza resa dalla stagione ancor più intensa e radicale.”
Un mezzo per inseguire la sua vocazione poetica è la scrittura per l’autore romano. Animato da quello spirito stilistico, proprio dello scrittore autentico, rendendolo non replicabile, non sostituibile. Uno spirito governato dall’unicità dell’espressione linguistica, per cui ogni verso è come un suono e ogni pagina è frutto di una formulazione non modificabile in virtù “di un principio di esattezza e di precisione secondo cui scrivere è tradurre con quelle parole quel sentimento.”
Il lavoro della poesia.
Parla di poesia Paolo Di Paolo. “Quando qualcosa è difficile me la sbrigo con la poesia.”
Non lo fa soltanto citando T. S. Eliot, Giorgio Caproni, Walt Whitman, gli autori delle tre epigrafi che cadenzano “Una storia quasi solo d’amore“, Walter Benjamin, Philip Larkin e Giovanni Raboni, ma ogni sua parola, pronunciata o scritta, è sottesa di tensione lirica.
Quando Paolo Di Paolo si trova in difficoltà si rifugia nella poesia. In realtà, il suo è un ritorno a casa.

 

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