«Con la libertà, i libri, i fiori e la luna, chi potrebbe non essere felice?» diceva Oscar Wilde.
Quale augurio migliore, dunque?
…buona lettura!
«Tutto cominciò quando venni a sapere che, il quindici giugno, una televisione internazionale avrebbe fatto delle riprese per la promozione della riserva naturale “Cala della Pecora”. “Minchia! Pubblicità in tutto il mondo, e pure gratis!”.
Il colpo di genio mai m’è mancato, modestia a parte, e all’alba di quel giorno, tracciai l’enorme scritta, che, sicuramente, chiunque avrebbe visto: T’ANO, sottolineata dalla freccia del logo Amazon. Che potevo saperne che avrei scatenato tutto quel bordello.
Mi chiamo Gaetano, più famoso come Tano.
Ho cinquantacinque anni e sono un imprenditore di successo!»
Tano è un pecoraio siciliano. E sì, è anche un imprenditore ambizioso, ed un cittadino modello sempre disponibile verso tutti, ed è geniale nella sua scarsa scolarizzazione. Inconsapevolmente, tuttavia, si trova ad essere protagonista di una storia tanto paradossale quanto verosimilmente attuale in cui il gattopardismo è onnipresente in una Sicilia che ha i confini di qualsiasi altra regione italiana e in cui la dimensione familiare della narrazione è il topos di tutti gli scontri e incontri dal climax ascendente e ironico.
Scritto a quattro mani, da Beppe Liotta e da Loredana Mazzone, “Ho scritto Tano sulla sabbia” (Corsiero Editore) è una commedia tragicomica dal retrogusto amaro che fa sorridere. Fa anche.
“Ma c’è davvero solo da ridere?”
“No”, si legge nella prefazione: perché si palesa un’Italia da aggiustare e da educare.
Bè… per questa volta, però… che si rida, e basta.
«Quindici uomini, quindici uomini sulla cassa del morto,
yo-ho-ho e una bottiglia di rum!
Il rum e il mio demonio hanno pensato al resto …….
yo-ho-ho e una bottiglia di rum!
Satana agli altri non ha fatto torto, con la bevanda li ha spediti in porto,
yo-ho-ho e una bottiglia di rum!
Quindici uomini, quindici uomini sulla cassa del morto,
yo-ho-ho e una bottiglia di rum per conforto! »
1, 2, 3, 4, 5, 6… 7, 8, e 9!
È uscita una nuova terzina del “Cartavolante”.
Dopo Moby Dick, Frankenstein, Orlando, Jane Eyre, Ventimila leghe sotto i mari e 1984, la collezione di queste originalissime pubblicazioni illustrate, edite da AbEditore, dedicate ai grandi classici della letteratura si arricchisce di altri tre titoli: “Dracula di Bram Stoker, Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen e L’isola del tesoro di Robert Louis Stevenson“.
Come sempre ci sono la creatività e la maestria di Elisabetta Stoinich e di Laura e Luisa Lodetti di Pemberley Pond.
Come sempre, citazioni, dettagli inediti e “il lato” curioso sui personaggi e sugli autori dei romanzi si svelano gradualmente schiudendo il ‘foglio’ 50×70, suggestivo per il materiale, per le illustrazioni e per l’hand lettering. Come sempre, sono “posterizzabili”, ossia trasformabili in una raccolta di poster che, terminata la lettura, si ‘manifestano’ svolgendo interamente le fanzine.
E come sempre i sensi, caldamente, ringraziano.
«Voglio raccontargli esattamente come ho passato quel giorno intero in cui credevo Marta viva ed era già morta e come vedo quel giorno adesso quando si ripete nei miei incubi e sento la voce che mi dice: “Domani nella battaglia pensa a me, e cada la tua spada senza filo. Domani nella battaglia pensa a me, quando io ero mortale, e lascia cadere la tua lancia rugginosa. Che io pesi domani sopra la tua anima, che io sia piombo dentro al tuo petto e finiscano i tuoi giorni in sanguinosa battaglia. Domani nella battaglia pensa a me, dispera e muori.”»
Morte, vita, battaglia. Una metafora della vita? Forse.
La morte improvvisa di una potenziale amante è occasione per Victor, protagonista e voce narrante, di indagare ossessivamente sulla donna ricostruendone la vita.
È tratto dal Riccardo III di Shakespeare il titolo “Domani nella battaglia pensa a me” (Einaudi) di Javier Marías, lo scrittore madrileno scomparso lo scorso settembre e considerato tra i maggiori autori moderni.
Maestro nel raccontare la profondità dell’animo umano, Javier Marías affronta in questo romanzo il delicato tema della morte, lambendo il confine tra ciò che è realtà e ciò che è invenzione e scandagliando le vite dei personaggi con affondi di parole e flussi di coscienza.
Una storia dalle virate quasi gialle e che, grazie all’utilizzo di una prosa dall’ampio respiro, lo toglie.
«Al numero 1 di Devonshire Terrace, in quel giorno di novembre insolitamente tiepido, il Natale era l’ultimo dei suoi pensieri. La cravatta allentata, il primo bottone del panciotto slacciato, le finestre dello studio spalancate. I riccioli castani ondeggiavano su quegli occhi color ardesia che si illuminavano a ogni parola: questa no, quest’altra invece sì, scarabocchiare e cancellare, con un sopracciglio alzato, il mento abbassato, una risata di gusto. Ogni espressione, ogni parte del corpo coinvolta nell’urgenza. Non esisteva nient’altro.»
È l’inverno del 1843, manca un mese a Natale e Mr Dickens sta per diventare padre per la quinta volta. Il blocco dello scrittore che lo affligge e i suoi editori che lo incalzano a consegnare al più presto un romanzo a tema natalizio, lo spingono a vagare per le strade di una Londra siderale e magica dove incontra una musa (o forse un fantasma?) avvolta in una mantella viola. Inizia, così, un percorso alla scoperta di se stesso e alla riscoperta dell’insperata ispirazione da cui nascerà “Canto di Natale”.
Opera di fantasia, “Il canto di Mr Dickens (Neri Pozza Editore) di Samantha Silva, racconta una favola di Natale, gioiosa e commovente, che tesse i fili della vita reale di Charles Dickens con quella dei suoi familiari e amici e nella quale echeggia tutto l’universo tematico dickensiano.
«Ora, caso volle che i vapori si condensassero in neve per effetto del freddo e che alcuni piccoli fiocchi mi cadessero sull’abito, tutti sessangolari, a raggi villosi. Eccola, per Ercole, la cosa più piccola di una qualsiasi goccia, piccola ma fornita di forma. Ecco una strenna d’elezione per un amatore del Nulla, e degna d’essere offerta da un Matematico che non ha Nulla e non riceve Nulla, perché i fiocchi cadono dal cielo e sono simili alle stelle». Ecco il dono che potrebbe offrire al suo protettore! Un dono semplice e al tempo stesso unico, delicato e misterioso. «Ogni volta che si mette a nevicare, succede regolarmente che le prime particelle di neve assumano la forma di un asterisco a sei angoli. Il fatto è dovuto a una causa precisa. Se infatti la cosa si producesse per caso, perché i fiocchi non dovrebbero avere cinque angoli o sette?»
Praga. Dicembre del 1610. L’astronomo e matematico Giovanni Keplero è preoccupato per non aver nulla da regalare all’amico Johannes Wackhenfels. La neve che provvidamente scende lo invita a studiare la simmetria esagonale di quel fiocco bianco gettando le basi di quella che sarebbe diventata la cristallografia, ed anticipando il problema oggi conosciuto come close packing.
È soltanto una, questa, delle cinque storie raccolte in “Natale di scienza. Storie di scoperte e stupore” (Interlinea Editore) di Massimiano Bucchi, docente di Scienza, Tecnologia e Società all’Università di Trento e divulgatore scientifico. Da Einstein a Keplero, da Lise Meitner a Wilhelm Röntgen e agli astronauti della Missione Apollo 8, cinque scoperte rivoluzionarie avvenute tra Natale e Capodanno e delle quali si sono sempre studiate soltanto le conseguenze scientifiche e non i contesti in cui sono avvenute.
«Adesso, pensava Borrani sull’auto dei carabinieri che lo conducevano in Procura, il rumore di fondo è davvero cambiato: si tratta del tintinnio delle manette. Decise di non aprir bocca, di non chieder nulla, di non protestare innocenza di fronte ad un’accusa che non gli era stata fatta. Sarebbe stata un’excusatio non petita e fingeva indifferenza come se fosse stato su un tassì un po’ speciale, pur sapendo benissimo qual era la ragione di quel trasferimento coatto: Santini doveva aver scoperto che, nella sua deposizione sul pomeriggio alla stazione, lui gli aveva mentito».
Avvocato, avvocato… sempre annoiato dalla routine lavorativa… sempre incapace di tenersi lontano dai guai. Ma perché in quel pomeriggio piovoso di fine novembre si trovava nei bagni della stazione ferroviaria di Livorno?
È tornato l’irriverente avvocato Leopoldo Borrani che la penna dello scrittore e avvocato reggiano Giuseppe Benassi in “Un luogo giusto in cui morire” (L’Erudita Editore) “iscrive”, per un destino beffardo, come principale sospettato dell’omicidio di un uomo.
Un delitto, una sequela di sparizioni inspiegabili, l’acquisto di un vecchio casolare nella campagna toscana, il ritrovamento di un teschio custodito al suo interno e le profezie di un’amica appassionata di esoterismo per una «fine più assurda quale coronamento più degno e più giusto di una storia assurda sin dall’inizio».
«“Vi voglio bene, figli di puttana” disse Eliot a Milford. “Siete i soli che leggo, ormai. Siete gli unici che parlano dei cambiamenti veramente straordinari che si stanno verificando, gli unici così pazzi da sapere che la vita è un viaggio nello spazio, e neanche tanto breve, perché durerà miliardi di anni. Siete gli unici tanto coraggiosi da preoccuparsi veramente per il futuro, da notare veramente tutto quello che ci stanno facendo le macchine, che ci stanno facendo le guerre, che ci stanno facendo le città, che ci stanno facendo le idee semplici e grandiose, di quali tremendi equivoci, errori, incidenti e catastrofi sono causa».
Ultimo erede dell’ingente patrimonio familiare, Eliot Rosewater, al rientro dai campi di battaglia della Seconda Guerra Mondiale, è trasfigurato, rinnovato nella propria concezione di vita assai distante dalla società capitalistica e consumistica su cui l’America si fonda. Tornato nel depresso paese natale nell’Indiana, apre un ufficio per aiutare i bisognosi: «Voglio amare questi americani di scarto, anche se sono inutili e brutti. Questa sarà la mia opera d’arte».
Lo circonda un mondo popolato da bizzarri personaggi, tra cui un giovane avvocato libanese senza scrupoli, d’accordo con i familiari per farlo interdire. Ci riuscirà?
Nella ricorrenza dei 100 anni dalla nascita del grande Kurt Vonnegut, la satira politica, sociologica ed anche fantascientifica di “Perle ai Porci” (Feltrinelli) risulta attuale, nonostante sia stata scritta nel 1965. Una satira caustica, divertente e, purtroppo, un po’ utopistica.
«Innanzitutto, dobbiamo definire ciò che le persone in un dato luogo e momento ritengono sia il ‘senso comune’. “Di cruciale importanza nel senso comune è che nelle sue verità non vi siano sottigliezze da cogliere o prove da accettare. La sua verità è assunta come tale dall’intero corpo sociale ed è di evidenza immediata a qualsiasi persona di intelligenza media”. Questa definizione tratta dal volume di Kate Crehan del 2016 comprende diversi concetti alquanto scivolosi, che dovrebbero metterci in allarme tutte le volte che li incontriamo, come ‘l’intero corpo sociale’, ‘intelligenza media’ e qualsiasi idea o cosa che diamo per assodata senza alcuna dimostrazione».
Imperialismo, militarismo, catastrofe ambientale, neoliberismo sfrenato con lo smantellamento di qualsiasi rete di sicurezza sociale, sperequazione abissale, distruzione del concetto di “bene comune“. Sono questi gli effetti di una società fondata sulle regole del realismo capitalista, sentito come “senso comune“. E sono questi i temi trattati da Noam Chomsky linguista, scienziato, filosofo e teorico della comunicazione statunitense e Marv Waterstone, economista, nel saggio ”Le conseguenze del capitalismo. Disuguaglianze, guerre, disastri ecologici: resistere e reagire” (Ponte alle Grazie). Nato da un corso all’università dell’Arizona, il volume mira a collegare fra loro fenomeni storici, politici, economici e sociali entro un unico sistema, partendo da un’indagine sul nostro modo di percepire la realtà, su come pensiamo di percepirla, dunque, su come pensiamo di comprendere il mondo. Un’indagine che deve avere un unico fine ultimo: l’azione.
Una grande lezione sulla ribellione contro “il sistema” economico, politico e ideologico.
«Ti do un consiglio, non cercare mai di dire di cosa parli un grande libro. O, se lo fai, dai l’unica risposta possibile: di niente. Un grande libro parla sempre e soltanto di niente, ma dentro c’è tutto».
Così esordisce l’autore nelle prime pagine di “La più recondita memoria degli uomini” (e/o Editore). Definita “un inno alla letteratura” dal presidente dell’Académie Goncourt che lo scorso novembre l’ha insignita dell’omonimo Premio, nell’opera dello scrittore senegalese, Mohamed Mbougar Sarr, c’è un mondo di personaggi portatori della propria storia e testimonianza che vanno dalla Francia al Senegal, dall’Olanda all’Argentina. Tra questi, un giovane scrittore, anch’esso senegalese, Diégane, che dopo aver scoperto un libro scandalo del 1938, ritirato dal commercio, “Il labirinto del disumano”, dà inizio ad una ricerca ossessiva e vertiginosa del suo autore-fantasma, T.C. Elimane. “La più recondita memoria degli uomini” è un giallo letterario, travolgente, seducente, labirintico, che riflette sui quesiti della scrittura: “Qual è il rapporto tra vita e letteratura?”. “Cosa significa scrivere e cosa definisce uno scrittore entro la trama che narra di identità sociale?”.
«È la nostra vita: cercare di fare letteratura, sì, ma anche parlarne, perché parlare significa anche mantenerla in vita, e finché sarà viva lei la nostra vita, per quanto inutile, per quanto tragicamente comica e insignificante, non sarà andata del tutto perduta».
«Niente accadeva mai due volte: ognuno ha a disposizione giorni e possibilità che non torneranno più. E non era forse meraviglioso starsene fermi in un punto e lasciare che il presente per una volta ci ricordasse il passato, per quanto doloroso, invece di scrutare continuamente il meccanismo dei giorni e i guai a venire, che forse non sarebbero nemmeno arrivati?».
Irlanda. La settimana di Natale del 1985. Benché sia un anno di recessione Bill Furlong continua a lavorare vendendo, nelle fattorie e nei villaggi, carbone, torba, antracite, carbonella e legna.
La scoperta celata all’interno di un convento in cui “si trovano” le malfamate “Maddalene“, le ragazze madri, induce il protagonista, uomo apparentemente semplice ma, in verità, tormentato da sentimenti contrastanti, a prendere un’importante decisione. Con “Piccole cose da nulla” (Einaudi) la scrittrice irlandese Claire Keegan regala un breve e commovente racconto, ispirato ad un fatto di cronaca realmente accaduto, il cui titolo dissimula quasi un’antifrasi. La grandezza dei gesti non è, infatti, determinante l’importanza del loro messaggio, delle loro conseguenze, della loro potenza e della loro dignità.
«C’è una tradizione a Mårbacka, che quando si va a dormire la Vigilia di Natale si ha il permesso di avvicinare un tavolino al letto, metterci sopra una candela e poi leggere finché si vuole. Questa è la più grande di tutte le gioie di Natale. Non c’è niente di più bello che starsene lì sdraiati con un bel libro avuto in regalo, un libro nuovo che non si è ancora mai visto e che nessun altro in casa conosce, e sapere che si può leggere pagina dopo pagina finché si riesce a stare svegli. Ma cosa si fa la notte di Natale, se non si sono ricevuti libri?»
Ci sono i colori, i profumi, le superstizioni, le usanze delle feste cariche di una magia palpabile. Ci sono i Natali passati, lontani,. Molto lontani, nel tempo e nello spazio. Ne “Il libro di Natale” (Iperborea) i Natali della scrittrice svedese Selma Lagerlöf, premio Nobel per la letteratura nel 1909, sono lontani anche da retorica e moralismi.
Dal “tono apparentemente ingenuo”, negli otto racconti riportati si legge l’abilità di colei che Marguerite Yourcenar definì «la più grande scrittrice dell’Ottocento». Selma Lagerlöf trasforma, infatti, il folklore delle tradizioni nordiche in storie senza tempo dalla grande e semplice profondità: la complessità si nasconde, infatti, dietro ad “un’apparente normalità” pronta a sorprendere e a meravigliare, anche attraverso una piccola dose di crudeltà tipica delle fiabe popolari.
«Quella che segue, ragazzi e ragazze, è la storia del povero Limpo e di come un bel giorno anche lui riuscì ad avere il suo frac.
E se il vostro maestro per caso vi dovesse dire che è una storia po’ strana e che queste cose non capitano mai, bene: tanto peggio per lui, mi dispiace. Tutto quello che vi resta da fare è di cambiare in giornata maestro. E dirgli di aprire più gli occhi.
Ma voi, intanto aprite bene le orecchie. Ecco qui».
La voce di Silvio D’Arzo, alias Ezio Comparoni, introduce una storia senza tempo, quella de “Il pinguino senza frac”. Una favola che metaforizza il tema dell’accettazione di ogni genere di diversità esistenziale e che rappresenta una preziosa lezione pedagogica utile a molti insegnanti (e non). Limpo – il nome Limpopo secondo i genitori sarebbe stato troppo altisonante per un figlio così siffatto – nasce, infatti, tutto bianco, privo del frac. Per potersene acquistare uno e superare questa terribile onta, il pinguino intraprende, quindi, un lungo viaggio di formazione, di crescita e iniziazione, fatto di incontri, di dolore, di morte e di scoperta.
“Il pinguino senza frac” è un vero gioiello: nelle parole di D’Arzo, nelle illustrazioni di Sonia Maria Luce Possentini e nella veste che la casa editrice Corsiero ha deciso essere a leporello, ossia con le pagine legate a fisarmonica creando un’unica striscia di testo e immagini lunga oltre sette metri e mezzo.
«Adesso anche lui aveva il suo frac: ma il più morbido e bello ed elegante e lucente che fosse mai dato vedere: un frac da domenica, proprio, con la catena dell’orologio per giunta. “No…no. Qui c’è sotto qualcosa” si spaventò subito Limpo, dandosi un forte scossone di testa. “No… questo non sono io. Questo è un altro.”
Ma, messosi una mano nella tasca del frac, ne uscì un bel biglietto da visita. E il biglietto diceva né più né meno così:
MAESTRO LIMPOPO. Diplomato in Tutto e altre cose.
E così non ebbe più nessun dubbio.
E voi, ragazzi, credeteci. È vero.».