5 Aprile 2016

Un(‘) Eco . . .e fu quasi solo uno spasso infinito _Aprile

 

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“Pape Satàn Aleppe” invocava Pluto nell’Inferno dantesco. Un non sense letterario, criptiche parole oggetto di vani studi esegetici da cui prende il titolo l’opera postuma di Umberto Eco e opera prima edita dalla Casa Editrice di cui egli fu socio fondatore, La nave di Teseo. Mi è parso comodo usarle come titolo di questa raccolta che, non tanto per colpa mia quanto per colpa dei tempi, è sconnessa, va – come direbbero i francesi – dal gallo all’asino e riflette la natura liquida di questi tempi.Una raccolta delle sue memorabili Bustine di Minerva pubblicate tra il 2000 e il 2016 rappresentative, dunque, della cosiddetta “società liquida”, dove il non senso pare prendere il sopravvento sulla razionalità con comiche conseguenze, ma con derive preoccupanti. Un interregno in attesa di soluzione di cui ogni Bustina accende un differente aspetto pagina dopo pagina.

L‘uscita del film “The End Of The Tour”, di James Ponsoldt, ha celebrato, il febbraio scorso, il ventesimo compleanno della sua pubblicazione raccontandone il tour promozionale del 1996. Infinite Jest (Einaudi), titolo “amletico” di ispirazione shakespeariana, di David Foster Wallace, coniugando ambizione e follia, divertimento e innovazione fu acclamato come opera che avrebbe modificato la letteratura americana, aspettative non disattese secondo alcuni. Titolo nel titolo, Infinite Jest è “la droga perfetta”, un film ipnotico, in un mondo governato dai diktat dell’intrattenimento, della pubblicità, che del tempo fa oggetto di marketing, e della Dipendenza. Una commedia umana in “realtà potenziata”, specchio di una futura società anch’essa “sconnessa”, ma qui trascinata al parossismo e dove si può scorgere una vaga assonanza con il Videodrome di Cronenberg.
Da superare senza alcun indugio l’impatto da “libro-molosso” per le sue 1.179 pagine. Sono un amaro “spasso infinito”.

Dopo Mandami tanta vita, finalista del Premio Strega 2013 e vincitore del Premio Salerno Libro d’Europa, la giovane voce di Paolo Di Paolo racconta, per interposta persona, Una storia quasi solo d’amore (Feltrinelli). Una storia cadenzata da tre epigrafi (elemento letterario assai caro all’autore “anche laddove intelligibile”) di Walter Benjamin, di Philip Larkin e di Giovanni Raboni, e tratteggiata dai due avverbi (quasi e solo) attentamente assestati nel titolo. La trama, con le sue tematiche dell’amore (è la prima volta per Di Paolo) e dello scontro/incontro generazionale, è certamente rilevante, ma forse secondaria all’impianto stilistico, qui, dalla forte accensione lirica e declinazione esistenziale. Il miracolo della giovinezza, che inevitabilmente procede oltre la propria, rappresentando il punto di partenza e di arrivo del libro, conferma la sua vena poetica.

 

“Pazienza, meglio i vezzi linguistici che l’uso improprio della lingua.
Recentemente un nostro deputato, per dire che non l’avrebbe tirata per le lunghe,
ha affermato in parlamento che sarebbe stato “circonciso”. Sarebbe stato preferibile che si fosse limitato a dire soltanto ‘sarò breve, e quant’altro’. Però, almeno, non era antisemita.”
[Pape Satàn Aleppe]
Umberto Eco

 

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