23 Giugno 2024

Forme di vita_Estate

La vita immaginaria, quella che secondo Natalia Ginzburg era capace di fornire gli strumenti utili alla vita, è stata il tema dell’edizione 2024 del Salone del Libro di Torino.
La vita immaginaria, motore della creatività, madre di differenti forme di vita, di mondi, che ora “in modo creativo, ora malinconico e ora fiducioso” possono incontrarsi, collidere, dialogare, diventare reali.
Immaginare, dunque.
Sempre.

Il titolo originale dell’ultimo libro di Alice Munro, la scrittrice canadese Premio Nobel per la Letteratura nel 2013 scomparsa lo scorso maggio, “Dear life” (“Cara vita”) suona quasi come un duplice commiato: il proprio e quello di cui quest’ultima raccolta di racconti è intrisa, evocando un’idea di scampato pericolo dal quale se ne è usciti vivi. Il titolo, infatti, in Italia per Einaudi è “Uscirne vivi” (Traduzione di Susanna Basso).
Da “Ghiaia” a “Treno”, da “In vista dal lago” a “Amundsen”, la maestra del racconto breve contemporaneo, nel suo stile qui ancor più asciutto, essenziale ma profondo, narra storie di vite in fuga, impazienti, cauterizzate, cicatrizzate, nel prologo e nell’epilogo del loro ciclo e spesso quasi vissute come spettatori, mostrando per un’ultima volta la sua abilità di “racchiudere in poche pagine l’intera complessità epica del romanzo”.

Rebus, labirinti, sciarade, indovinelli, enigmi, puzzle, cruciverba… e un segreto da scoprire, un rompicapo da risolvere: quello che Philippa Allsbrook, celebre enigmista, padrona di una magione del Bedfordshire, sede della Compagnia degli Enigmisti, affida in punto di morte a Clay, ragazzo abbandonato in fasce e cresciuto dagli abitanti di quella criptica villa. Sono le menti più acute e affinate dell’Inghilterra del secolo scorso, donne e uomini specializzati nell’arte dell’enigmistica.
La Compagnia degli enigmisti” (Longanesi, Traduzione di Alba Bariffi) di Samuel Burr è il viaggio nella risoluzione di quell’enigmatico lascito, in una narrazione simbolica tra presente e passato, dove l’epifania sarà la scoperta delle proprie radici… anche perché «Le soluzioni, in fondo,” non sono le fondamenta per una vita appagante?»

Terribilmente attuale è il nuovo romanzo di Paul Lynch. Vincitore del Booker Prize 2023, “Il canto del profeta” (66thand2nd Editore, Traduzione di Riccardo Duranti) non è così distopico come lo si definisce trattandosi della cronaca di tanti disastri già in essere, intonando una melodia verosimile e vicina.
“Nei tempi bui
canteremo ancora?
Sì, canteremo ancora.
Dei tempi bui”
recita Brecht in esergo.
Ambientata in Irlanda in un tempo imprecisato in cui lentamente, gradualmente e surrettiziamente censura, violenza, persecuzione e negazione dei diritti portano all’instaurazione di un regime totalitario, la storia è priva di pregressi accadimenti politici a spiegazione dell’escalation dei fatti. Fatti narrati da un flusso di coscienza che esacerba l’atmosfera paranoica e oppressiva, e paragonati a quelli di “1984” di Orwell e con assonanze houellebecquiane (si ricordi “Sottomissione”).

Romanzo d’esordio, di formazione oltreché di interpretazione. Con “T” (Adelphi, Traduzione di Gioia Guerzoni) la scrittrice angloindiana Chetna Maroo utilizza lo sport come metafora di vita e regala un piccolo gioiello sul superamento del lutto, un breve romanzo di dolore e di rinascita. Quello che per Joan Didion è stato “L’anno del pensiero magico”, per Gobi, adolescente di origine indiana trapiantata con la famiglia in Inghilterra, è un anno di dolore per convivere con il quale si dedica, su consiglio del padre, al gioco dello squash fino a quattro ore al giorno. Un anno cadenzato da suoni, da rumori, da “pesi”, da silenzi avvertiti (anche dal lettore) mentre la ragazzina si trova sulla “T”, la zona del centro campo da dove meglio si controlla il gioco.

Romanzo speculare a “Di chi è la colpa” dove il professor Sacerdoti è un ragazzino orfano adottato dallo zio, “Aria di famiglia” (Mondadori) vede il professore stesso, ora cinquantenne, divenire, controvoglia, tutore di Noah, sconosciuto nipote di una lontana cugina. L’idiosincrasia e la ritrosia iniziali del professore misantropo, romanziere, votato al lavoro e all’edonismo, tra l’altro anche allontanato dall’Università con l’accusa di sessismo, lasceranno spazio, in questo nuovo rapporto, al riconoscimento della propria immagine riflessa e ad un nuovo sguardo verso la vita.
Una vena autobiografica ha ispirato Alessandro Piperno nello scrivere, con l’ironia e l’irriverenza che lo connotano, un romanzo “importante” per stile e contenuto e dai rimandi rothiani: la sua “mancata paternità” che, dice l’autore, “conduce direttamente da una lunghissima adolescenza alla vecchiaia senza passare per la vita adulta”.

A volte ritornano! Ma fortunatamente l’avvocato Borrani, il divisivo avvocato Leopoldo Borrani (o lo si ama o lo si odia) torna sempre. Forse leggermente invecchiato, forse leggermente depresso o forse è la prossimità ai peggiori esponenti di un’umanità desolata e desolante, a farlo apparire un po’ più edulcorato?
In “Una favolosa eredità” (Extempora Edizioni) Giuseppe Benassi affida al principe del foro livornese la “sedazione” di una guerra per un’ingente eredità composta da denaro, palazzi, ville e da quadri prestigiosi. I protagonisti sono, infatti, i discendenti di importanti antiquari italiani a fronte delle cui nefandezze fanno da contraltare l’arte e la natura, temi onnipresenti insieme a quello del mondo dell’occulto negli esilaranti e irriverenti thriller giudiziari dell’avvocato e scrittore reggiano.

Una testimonianza autobiografica cruda, asciutta, lucida, potente ma al contempo misurata nella scelta, chirurgicamente ponderata, di ogni singola parola creando una riflessione su se stessa. Con “Triste tigre” (Neri Pozza, Traduzione di Luciana Cisbani), Neige Sinno, ripercorre la propria esistenza di “damaged for life”, perché “vittime si è per sempre”: dall’età di sette anni sino all’adolescenza è stata, infatti, violentata dal patrigno, denunciato poi a diciannove anni.
Racconta tutto: i dettagli, gli abusi, la denuncia, il processo, il presente e il passato, toccando i concetti di predazione, di diffrazione, di “amore”, di irreparabilità del “danno”, di dominazione sessuale e di come essa sia una forma di sottomissione che intacca le fondamenta stesse dell’essere…
Racconta di quel luogo, di quel paese oscuro «senza sapere da che parte andare, con tutti i sensi all’erta»; spiega le diverse psicologie ricorrendo a testi scientifici, ma soprattutto alla letteratura attraverso coloro che hanno trattato il “tema” a diverso “titolo” da Nabokov a Virginia Woolf.
Avulso da pietismi, retorica e autocommiserazione, “Triste tigre” – titolo mutuato da “Tigre, tigre” di Margaux Fragoso – è un memoir che invita anche ad una riflessione sull’importanza, sull’impotenza e sul fallimento nonché travisamento del linguaggio e della letteratura.

Ha scritto della vita degli altri, di Marguerite Duras, di Natalie Gisburg. Ora Sandra Petrignani rivolge la scrittura – compagna di sempre – a se stessa e lo fa attraverso la vita dei suoi cani – altra costante – con i quali sussiste un rapporto di scambio, fatto anche di parole.
Scrive di se stessa e dei suoi “quadrupedi diversamente pelosi”, compagni di vita sin da quando, bambina timida e introversa, si identificava in quelle creature tristi e sole. Dagli anni vissuti a Piacenza a quelli a Roma, Sandra Petrignani in “Autobiografia dei miei cani” (Feltrinelli) racconta, con leggerezza e tenerezza, come i cani siano stati silenziosi testimoni di amicizie, amori, separazioni, matrimoni, lutti e gioie. Intervallano queste narrazioni capitoli strutturati in forma di dialogo, sulla letteratura e sulla scrittura, con un alter ego maschile, sublimazione di tanti personaggi e figure.

«Un ritmo costante e malinconico dall’altro campo, il colpo e l’eco, all’infinito, a suo modo liberatorio.
Qualcuno si stava esercitando. E sapevo chi era.
Rimasi in ascolto e qualcosa penetrò in me, nei nervi e nelle ossa,
e con la sensazione di essere stata salvata alzai la racchetta e servii»


Chetna Maroo
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