La vita immaginaria, quella che secondo Natalia Ginzburg era capace di fornire gli strumenti utili alla vita, è stata il tema dell’edizione 2024 del Salone del Libro di Torino.
La vita immaginaria, motore della creatività, madre di differenti forme di vita, di mondi, che ora “in modo creativo, ora malinconico e ora fiducioso” possono incontrarsi, collidere, dialogare, diventare reali.
Immaginare, dunque.
Sempre.
«Che ci fai qui?, ti domandano. Dove stai andando? Hai la sensazione di essere osservato da cose di cui non conoscevi l’esistenza. Di essere tu, l’elemento di disturbo. La sensazione che la vita intorno stia formulando sul tuo conto un giudizio a partire da punti d’osservazione a te ignoti.»
Il titolo originale dell’ultimo libro di Alice Munro, la scrittrice canadese Premio Nobel per la Letteratura nel 2013 scomparsa lo scorso maggio, “Dear life” (“Cara vita”) suona quasi come un duplice commiato: il proprio e quello di cui quest’ultima raccolta di racconti è intrisa, evocando un’idea di scampato pericolo dal quale se ne è usciti vivi. Il titolo, infatti, in Italia per Einaudi è “Uscirne vivi” (Traduzione di Susanna Basso).
Da “Ghiaia” a “Treno”, da “In vista dal lago” a “Amundsen”, la maestra del racconto breve contemporaneo, nel suo stile qui ancor più asciutto, essenziale ma profondo, narra storie di vite in fuga, impazienti, cauterizzate, cicatrizzate, nel prologo e nell’epilogo del loro ciclo e spesso quasi vissute come spettatori, mostrando per un’ultima volta la sua abilità di “racchiudere in poche pagine l’intera complessità epica del romanzo”.
«Ciò che voglio dire è che l’enigmistica non deve occuparsi solo di trovare collegamenti, ma può crearli. Collegamenti fra persone, legami umani.A quell’idea diversi soci si agitarono a disagio sulla sedia, ma non si poteva negare: l’enigmistica avvicinava le persone. (…) C’era un buon motivo per cui aveva chiamato così l’associazione. Era per quello che si trovavano lì. Non era solo per l’enigmistica, che di solito era un’impresa solitaria, ma per la compagnia. Era il fattore più importante di tutti. Ecco cos’era.»
Rebus, labirinti, sciarade, indovinelli, enigmi, puzzle, cruciverba… e un segreto da scoprire, un rompicapo da risolvere: quello che Philippa Allsbrook, celebre enigmista, padrona di una magione del Bedfordshire, sede della Compagnia degli Enigmisti, affida in punto di morte a Clay, ragazzo abbandonato in fasce e cresciuto dagli abitanti di quella criptica villa. Sono le menti più acute e affinate dell’Inghilterra del secolo scorso, donne e uomini specializzati nell’arte dell’enigmistica.
“La Compagnia degli enigmisti” (Longanesi, Traduzione di Alba Bariffi) di Samuel Burr è il viaggio nella risoluzione di quell’enigmatico lascito, in una narrazione simbolica tra presente e passato, dove l’epifania sarà la scoperta delle proprie radici… anche perché «Le soluzioni, in fondo,” non sono le fondamenta per una vita appagante?»
«Mamma, il mondo ci sta guardando, dice, il mondo ha visto quello che è successo, le forze di sicurezza hanno aperto il fuoco su una manifestazione pacifica e poi ci hanno dato la caccia, ora è tutto cambiato, capisci?, non si torna più indietro.»
Terribilmente attuale è il nuovo romanzo di Paul Lynch. Vincitore del Booker Prize 2023, “Il canto del profeta” (66thand2nd Editore, Traduzione di Riccardo Duranti) non è così distopico come lo si definisce trattandosi della cronaca di tanti disastri già in essere, intonando una melodia verosimile e vicina.
“Nei tempi bui
canteremo ancora?
Sì, canteremo ancora.
Dei tempi bui”
recita Brecht in esergo.
Ambientata in Irlanda in un tempo imprecisato in cui lentamente, gradualmente e surrettiziamente censura, violenza, persecuzione e negazione dei diritti portano all’instaurazione di un regime totalitario, la storia è priva di pregressi accadimenti politici a spiegazione dell’escalation dei fatti. Fatti narrati da un flusso di coscienza che esacerba l’atmosfera paranoica e oppressiva, e paragonati a quelli di “1984” di Orwell e con assonanze houellebecquiane (si ricordi “Sottomissione”).
«In campo, la mente non è rivolta solo al colpo che stai per eseguire e a quello con cui l’avversario potrebbe rispondere, ma anche ai due, tre, quattro colpi che seguiranno. Osservi la posizione dell’avversario e il suo gioco, fai calcoli. È così che scegli da che parte andare. Anche se la mente percorre più strade nello stesso tempo.»
Romanzo d’esordio, di formazione oltreché di interpretazione. Con “T” (Adelphi, Traduzione di Gioia Guerzoni) la scrittrice angloindiana Chetna Maroo utilizza lo sport come metafora di vita e regala un piccolo gioiello sul superamento del lutto, un breve romanzo di dolore e di rinascita. Quello che per Joan Didion è stato “L’anno del pensiero magico”, per Gobi, adolescente di origine indiana trapiantata con la famiglia in Inghilterra, è un anno di dolore per convivere con il quale si dedica, su consiglio del padre, al gioco dello squash fino a quattro ore al giorno. Un anno cadenzato da suoni, da rumori, da “pesi”, da silenzi avvertiti (anche dal lettore) mentre la ragazzina si trova sulla “T”, la zona del centro campo da dove meglio si controlla il gioco.
«Pronto? Non mi ero mai sentito pronto in vita mia. Avevo un bel dirmi che niente era deciso, che la situazione era in evoluzione, e tutto sommato reversibile. Non era così. Comunque fosse andata, non mi sarei più liberato della zavorra di questo bimbo, né lui della mia. Anche se alla fine avessimo deciso di separare le nostre strade, oramai ciascuno di noi apparteneva alla biografia dell’altro.»
Romanzo speculare a “Di chi è la colpa” dove il professor Sacerdoti è un ragazzino orfano adottato dallo zio, “Aria di famiglia” (Mondadori) vede il professore stesso, ora cinquantenne, divenire, controvoglia, tutore di Noah, sconosciuto nipote di una lontana cugina. L’idiosincrasia e la ritrosia iniziali del professore misantropo, romanziere, votato al lavoro e all’edonismo, tra l’altro anche allontanato dall’Università con l’accusa di sessismo, lasceranno spazio, in questo nuovo rapporto, al riconoscimento della propria immagine riflessa e ad un nuovo sguardo verso la vita.
Una vena autobiografica ha ispirato Alessandro Piperno nello scrivere, con l’ironia e l’irriverenza che lo connotano, un romanzo “importante” per stile e contenuto e dai rimandi rothiani: la sua “mancata paternità” che, dice l’autore, “conduce direttamente da una lunghissima adolescenza alla vecchiaia senza passare per la vita adulta”.
«“Avvocato, ci scappa il morto… qui ci scappa il morto, glielo dico io!”. “Si calmi signora, si calmi, e mi racconti tutto, per filo e per segno”. Borrani era appena ritornato dalle vacanze in Sardegna, piuttosto burrascose (…) “Le dico che deve venire subito!” Quella continuava a strillare, con quella bocca sbaffata di rossetto, ridicola. Era forse una matta?»
A volte ritornano! Ma fortunatamente l’avvocato Borrani, il divisivo avvocato Leopoldo Borrani (o lo si ama o lo si odia) torna sempre. Forse leggermente invecchiato, forse leggermente depresso o forse è la prossimità ai peggiori esponenti di un’umanità desolata e desolante, a farlo apparire un po’ più edulcorato?
In “Una favolosa eredità” (Extempora Edizioni) Giuseppe Benassi affida al principe del foro livornese la “sedazione” di una guerra per un’ingente eredità composta da denaro, palazzi, ville e da quadri prestigiosi. I protagonisti sono, infatti, i discendenti di importanti antiquari italiani a fronte delle cui nefandezze fanno da contraltare l’arte e la natura, temi onnipresenti insieme a quello del mondo dell’occulto negli esilaranti e irriverenti thriller giudiziari dell’avvocato e scrittore reggiano.
«Quel giorno, quando mi sono pensata morta, probabilmente sono morta un po’, e il fantasma che mi sopravvive è quella che ha saputo tenere duro fino a oggi. Quella che non è riuscita a reggere è andata dove doveva andarsene, l’altra, quella che ha voluto rimanere, sono io. Ma la scissione non è così semplice e ci ricordiamo costantemente una dell’altra. Perché la mia parte maledetta non è andata poi così lontano, sento spesso il suo respiro corto, la voce spezzata, vedo il suo riflesso negli specchi, si insinua nel mio sonno. È sempre lì, anche lei, ad aspettare chissà cosa.»
Una testimonianza autobiografica cruda, asciutta, lucida, potente ma al contempo misurata nella scelta, chirurgicamente ponderata, di ogni singola parola creando una riflessione su se stessa. Con “Triste tigre” (Neri Pozza, Traduzione di Luciana Cisbani), Neige Sinno, ripercorre la propria esistenza di “damaged for life”, perché “vittime si è per sempre”: dall’età di sette anni sino all’adolescenza è stata, infatti, violentata dal patrigno, denunciato poi a diciannove anni.
Racconta tutto: i dettagli, gli abusi, la denuncia, il processo, il presente e il passato, toccando i concetti di predazione, di diffrazione, di “amore”, di irreparabilità del “danno”, di dominazione sessuale e di come essa sia una forma di sottomissione che intacca le fondamenta stesse dell’essere…
Racconta di quel luogo, di quel paese oscuro «senza sapere da che parte andare, con tutti i sensi all’erta»; spiega le diverse psicologie ricorrendo a testi scientifici, ma soprattutto alla letteratura attraverso coloro che hanno trattato il “tema” a diverso “titolo” da Nabokov a Virginia Woolf.
Avulso da pietismi, retorica e autocommiserazione, “Triste tigre” – titolo mutuato da “Tigre, tigre” di Margaux Fragoso – è un memoir che invita anche ad una riflessione sull’importanza, sull’impotenza e sul fallimento nonché travisamento del linguaggio e della letteratura.
«Vado istintivamente d’accordo con chi lascia che la sua vita sia complicata dalla compagnia di qualche animale. C’è anche chi evita d’innamorarsi per non complicarsi la vita, gente di cui conviene diffidare. Avere un cane è trovarsi in un costante stato di innamoramento.»
Ha scritto della vita degli altri, di Marguerite Duras, di Natalie Gisburg. Ora Sandra Petrignani rivolge la scrittura – compagna di sempre – a se stessa e lo fa attraverso la vita dei suoi cani – altra costante – con i quali sussiste un rapporto di scambio, fatto anche di parole.
Scrive di se stessa e dei suoi “quadrupedi diversamente pelosi”, compagni di vita sin da quando, bambina timida e introversa, si identificava in quelle creature tristi e sole. Dagli anni vissuti a Piacenza a quelli a Roma, Sandra Petrignani in “Autobiografia dei miei cani” (Feltrinelli) racconta, con leggerezza e tenerezza, come i cani siano stati silenziosi testimoni di amicizie, amori, separazioni, matrimoni, lutti e gioie. Intervallano queste narrazioni capitoli strutturati in forma di dialogo, sulla letteratura e sulla scrittura, con un alter ego maschile, sublimazione di tanti personaggi e figure.