«Mi piacerebbe che ogni bambino potesse conoscere l’albero delle farfalle e se ne innamorasse. Imparerebbe a riconoscere un luogo dell’anima dove nessuno deve rincorrere niente di preciso, perché saprebbe che la passione arriva senza smanie senza fretta. Guardando volare le farfalle inebriate da odori e colori, apprenderebbe che la passione – e la sua irragionevolezza – è indispensabile per costruire una vita che abbia un senso, per attraversare i ponti senza curarsi se poi si riveleranno soltanto meravigliosi miraggi. Le farfalle, esempio di ‘inseguimento perpetuo delle cose’ come diceva Italo Calvino, esattamente come la passione che non si posa mai, ma emigra da un’esperienza a un’altra, da un dolore o da una gioia a un’altra, senza requie, come il battito del cuore, come la rincorsa dei sogni.
La passione è l’anticorpo naturale alla paura della vita, per questo è perfino ragionevole.»
Eloquente passaggio di Passione, l’ultimo saggio di Paolo Crepet per Mondadori Editore.
Passione è movimento d’animo e lo psicologo e sociologo torinese mostra l’importanza di affrancarsi dalla secolare tradizione che la vuole antitetica espressione della ragione. L’ambivalenza e il dualismo in cui regna il “caos”, come fonte di complessità, creatività e di ricchezza, permettono la convivenza di questi stati non più inconciliabili.
Nel tempo in cui tutto appare facilmente fattibile e fruibile grazie alle nuove tecnologie digitali, anestetici delle capacità cognitive ed emotive, comprendere come la passione sia il motore per vivere è fondamentale. Per tutti. Giovani e adulti.
Tre omaggi, tre storie, tre “campioni di passione” – Renzo Piano, Paolo Fresu e Alessandro Michele – dimostrano, inoltre, come questo sentire si esprima attraverso l’ostinazione e la necessità di libertà, strumenti per l’approdo ad una vita stupefacente.
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«I ragazzi che si bucano diventano tutti abituati alla felicità e questa è una cosa che non perdona, dato che la felicità è nota per la sua scarsità. (…) Ma io non ci tengo tanto ad essere felice, preferisco ancora la vita. La felicità è una bella schifezza e una carogna e bisognerebbe insegnarle a vivere. Non siamo della stessa razza, io e lei, e a me non me ne frega niente. Fino adesso non ho mai fatto politica perché c’è sempre qualcuno che se ne approfitta, ma la felicità, ci dovrebbero essere delle leggi per impedirle di fare la carogna.»
Sarebbero sufficienti il titolo e le poche righe sulla seconda di copertina relative alla biografia dell’autore per leggere il libro. Questione di pancia.
Uscito nel 1975 sotto lo pseudonimo di Èmile Ajar alias Roman Gary alias Roman Kacew, La vita davanti a sé è quella di Mohammed, Momò, ragazzino arabo che nella pensione del quartiere multietnico parigino Belleville, gestita da Madame Rosa con la quale filiale è il rapporto instaurato, condivide la propria esistenza con altri bambini. Tutti figli di prostitute, costrette dalla legge francese a non crescerli. Una vita raccontata in prima persona da una voce semplice, candida, artefice di un gergo da banlieue e filtrata da due occhi altrettanto puri, svegli, fragili, testimoni di un mondo tragico, ma sorprendente e, nonostante tutto, degno di essere esplorato.
Che vita ha Momò dinanzi a sé?
Ha l’oggi, il qui ed ora, ha il futuro semplice con l’incertezza che intrinseca reca. Una vita in cui impossibile è “non avere qualcuno da amare”.
Vincitore nel suo anno di uscita del Premio Goncourt, in Italia La vita davanti a sé è edito da Neri Pozza anche in una bellissima versione illustrata da Manuele Fior.
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«È una piccola compressa bianca, ovale, divisibile.
Non crea né trasforma; interpreta. Ciò che era definitivo, lo rende passeggero; ciò che era ineluttabile, lo rende contingente. Fornisce una nuova interpretazione della vita – meno ricca, più artificiale, e improntata a una certa rigidità.»
Controverso, politicamente scorretto, scurrile, provocatorio, sopravvalutato, nichilista, iterativo, profetico. Amato e odiato è tornato Michel Houellebecq con quello che è stato definito un romanzo ‘d’amore, politico, esistenziale e, soprattutto, radiografia del futuro prossimo che incombe sulle nostre vite’.
Certamente disturbante come la maggior parte dei suoi titoli (benché meritevoli di essere letti), Serotonina (La nave di Teseo) riprende numerosi temi cari all’autore francese “calandoli” in una dimensione lisergica. Affetto da depressione, il protagonista, un funzionario del Ministero dell’Agricoltura, affida, infatti, ad uno psicofarmaco, il Captorix (l’ormone della felicità), la propria capacità di vivere, di fronteggiare il proprio “dominio della lotta” quotidiana, non eludendo i rischi comportanti dal farmaco. Una quotidianità eccessivamente competitiva – il mondo non è forse “sofferenza dispiegata”? – in cui tuttavia Houellebecq inocula un già intravisto barlume revanscista prima celato tra le righe ed ora maggiormente nudo nella volontà di riuscire a vivere in seno ad una società soffocata dalla globalizzazione.
Un Houellebecq romantico secondo alcuni, alla deriva e da tacitare secondo altri.
Ai lettori l’ardua sentenza.
«Ogni dolore viene scritto su lastre di una sostanza
misteriosa al paragone della quale il granito è burro.
E non basta un’eternità a cancellarlo.»
[La boutique del mistero]
Dino Buzzati