La produzione editoriale, narrativa e saggistica, pare quasi inversamente proporzionale al numero (sempre più esiguo) di coloro che si dedicano all’attività della lettura.
Che peccato.
“C’è un libro sopra tutti al quale sento di essere grato, il primo letto, quello che ha aperto la porta a tutti gli altri”, ha scritto Andrea Vitali.
Che i titoli che seguono possano rappresentare quel libro … per qualcuno.
“A chi ci crede e a chi vuole restare” è dedicato Tutto è in frantumi e danza. L’ingranaggio celeste (La Nave di Teseo). Edoardo Nasi e Guido Maria Brera, scrittore-imprenditore e finanziere, parafrasando i versi di Jim Morrison e rimbalzandosi da un capitolo all’altro, dialogano sulla cattiva gestione della globalizzazione (tritatutto, distruttiva) e sul suo fallimento.
“Oggi ci scopriamo osservati da un nuovo capitalismo della sorveglianza che si nutre del continuo monitoraggio delle identità digitali e dell’accumulazione delle informazioni.”
Uno spaccato degli ultimi 20 anni dove i burattinai dell’ingranaggio celeste sono la finanza, l’economia e la politica.
Nostalgia e pessimismo dalla veste grafica suggestiva e calzante, raffigurante il famoso “Vancouver Riot Kiss (bacio mai avvenuto, in realtà)…per la serie “Pensavo fosse amore, invece era un calesse”.
“Dunque eccomi qui, a testa in giù in una donna. Braccia pazientemente conserte ad aspettare, aspettare e chiedermi dentro chi sono, dentro che guaio mi sto per cacciare.”
È questo l’incipit dell’ultimo bizzarro romanzo di Ian McEwan. Definito un remake shakespeariano, come suggerisce l’epigrafe tratta dalla tragedia più amletica della storia (“Oddio, potrei anche essere confinato in un guscio di noce e sentirmi il re di uno spazio infinito – se non fosse la compagnia di brutti sogni”), Nel guscio (Einaudi) è un thriller strutturato come un lungo monologo. L’io narrante, che ascolta, prende appunti mentali e si preoccupa, è un feto, un novello Amleto 2.0, testimone, grazie, o purtroppo, all’udito – unico senso possibile – del tradimento avvenuto e del delitto che sta per compiersi. Una posizione che lo induce anche a prevedibili riflessioni ontologiche: essere o non essere?
La guerra civile, la migrazione e la tecnologia, il presente dunque, filtrati dalla fantascienza. E l’amore, quello acerbo di una giovane coppia in fuga da una città mediorientale, trasformata in una trappola mortale, attraverso misteriose porte magiche, a pagamento e rischiose per la vita, traghettatrici verso luoghi remoti, verso un altrove dove la speranza non sia un’utopistica idea.
“In quei giorni si diceva che il passaggio era un po’ come una morte e un po’ come una nascita, e in effetti Nadia provò una sensazione di annientamento mentre entrava nell’oscurità e lottò furiosamente per respirare mentre cercava di uscirne, ed era infreddolita, contusa e bagnata quando si ritrovò distesa sul pavimento della stanza dall’altra parte, tremava e sulle prime era così spossata che non riusciva ad alzarsi, e pensò, mentre boccheggiava per riempirsi i polmoni d’aria, che quella sensazione di bagnato doveva essere il suo sudore.”
Exit West (Einaudi) di Mohsin Hamid è un imperdibile, visionario e metaforico romanzo politico, interprete della contemporaneità con i tutti i suoi accadimenti e cambiamenti planetari.
“Si potrebbe dire che l’orchidea imiti la vespa di cui riproduce l’immagine in maniera significante [mimesi, mimetismo, illusione, ecc]. (…) Nello stesso tempo si tratta di tutt’altra cosa: non imitazione, ma cattura di codice, plusvalore di codice, aumento di valenza, vero divenire, divenire-vespa dell’orchidea, divenire-orchidea della vespa.” Così Deleuze e Guattari precedono Il corpo che vuoi (Black Coffee) di Alexandra Kleeman. La sua satira, divertente e inquietante che vira anche nel giallo, nel raccontare la vita di A, B e C (due ragazze e un ragazzo) coinquilini in un’altrettanto anonima città americana, rimanda alle storture dondelilliane della cattiva maestra televisione, dell’invadenza mediatica e pubblicitaria, della fagocitante logica del consumismo.
Identificazione, ossessione, dissimulazione, omologazione. Fame e appetito che plasmano la mente e il corpo sino a divenire quasi un “corpo post-organico” e approdando ad una ridefinizione del concetto di femminilità. “Il corpo di una donna non le appartiene mai davvero. (…) In quelle rare e circoscritte eccezioni in cui il mio corpo era veramente mio, non sapevo che farmene.”
Dostoevskij affidava alla bellezza la salvezza del mondo. Anche Vittorio Sgarbi è del medesimo parere e Luca Nannipieri espone la figura non dell’uomo, ma del critico d’arte, eccellente qual è, in una lunga lettera indirizzata al figlio, augurandogli di possedere i suoi occhi. Quelli del controverso, estremo, del provocatorio animale del mondo dell’arte italiana. Occhi tremanti e innamorati “della dea più sovrana e fragile del mondo: la bellezza”, per la cui sopravvivenza e per la salvaguardia del patrimonio artistico si trovano in perenne stato di belligeranza. “Perché lui sente il fuoco di voler cambiare, sente che la bellezza non è decorazione: è essenza dell’uomo, forma e significato dell’uomo, è interrogazione e magnitudine dell’uomo, e se la colpisci, se la devasti, se la incendi, se la distruggi, se ti lascia indifferente, allora tu hai colpito, devastato, distrutto, incendiato l’uomo. Anche nei suoi eccessi, nei suoi disordini, Sgarbi difende questo fuoco, questa fame, difende l’umana fragilissima domanda di bellezza.”
Scritto da un critico d’arte e filtrato da un altro sguardo “critico”, VITTORIO SGARBI spiegato a mio figlio (Aliberti compagnia editoriale) è un elogio della bellezza carico di domande cui ognuno, ponendosele, dovrebbe dare risposta.
“L’umami inizia in bocca. Inizia al centro della lingua, si attiva la salivazione. Si risvegliano i molari, vogliono mordere, hanno bisogno di movimento. Non poi così diverso, a dire il vero, anche se in proporzioni più modeste, dal movimento dei fianchi durante il sesso: in quel momento, l’unica cosa da fare è obbedire al proprio corpo, e il corpo sa cosa fare. Mordere è un piacere, e l’umami è la qualità di ciò che è mordibile.”
Città del Messico. 2000 – 2004. Villa Campanaria. Ci sono la casa Amaro, Acido, Salato, Dolce e la casa Umami (come il quinto sapore giapponese). Ci sono i loro abitanti, eccentrici e dolenti. Ci sono le loro storie di perdita e di dolore, ma soprattutto di rinascita e allegria, in Umami (Sur), romanzo d’esordio di Laia Jufresa. C’è la bellezza di una prosa piana e fresca per cogliere l’essenza, spesso sfuggente, delle cose. “Tra tutti, sappiamo tutto” recita Alfonso Reyes ad esergo, e l’autrice messicana ne esprime appieno il gusto.
“Voglio pensare a te, Arthur Schopenhauer,
Ti amo e ti vedo nel riflesso dei vetri,
Il mondo non ha scampo e io sono un vecchio buffone
Fa freddo. Fa molto freddo. Addio Terra.”
Che dichiarazione d’amore!
Una dichiarazione di eterna devozione rivolta al filosofo tedesco – oltre a quella manifesta nei versi de La ricerca della felicità –è anche In presenza di Schopenhauer (La nave di Teseo) di Michel Houellebecq.
Il racconto di un incontro avvenuto tra i 25 e i 27 anni, imbattendosi dapprima negli Aforismi sulla saggezza della vita e ne Il mondo come volontà e rappresentazione, poi. La sua opera più brillante, la prima, l’opera di un’intera vita, la seconda.
Una folgorazione per “il migliore degli educatori”, come lo definì Nietzsche.
In quell’esperto di sofferenza, quel pessimista radicale, in quel solitario misantropo, Houellebecq meravigliosamente si riconosce, ravvedendovi il proprio alter ego al quale ora rende omaggio commentando i passi preferiti delle due opere. Un modello per ogni filosofo futuro, Schopenhauer è colui che nel secondo stadio della propria carriera “parlerà di ciò di cui non si può parlare: dell’amore, della morte, della pietà, della tragedia e del dolore; tenterà di estendere la parola all’universo del canto. Coraggiosamente, e unico a tutt’oggi tra i filosofi, entra nel campo dei romanzieri, dei musicisti e degli scultori (…) Lo farà con qualche brivido, poiché l’universo delle passioni umane è un universo disgustoso, spesso atroce, dove si aggirano la malattia, il suicidio e l’omicidio; ma comunque lo farà e aprirà alla filosofia terre nuove (inesplorate prima di lui, quasi inesplorate dopo di lui); diventerà il filosofo della volontà.” E lo farà mediante un approccio inconsueto per un filosofo, quello della contemplazione estetica.
Il mondo per Houellebecq è sofferenza dispiegata. Per Schopenhauer è la sua rappresentazione
“Come vanno le lezioni americane?”, domandava Pietro Citati in visita a Italo Calvino. E così fu il titolo (scelto dalla moglie Esther) della raccolta del ciclo di conferenze – le Charles Eliot Norton Poetry – , che lo scrittore nel 1984 fu invitato dall’Università di Harvard a tenere.
Conferenze purtroppo mai svoltesi per il sopraggiungere, improvviso, della morte dello scrittore.
Pubblicato postumo, Lezioni americane – Sei proposte per il nuovo millennio (Mondadori) consiste nell’esposizione dei temi di cui egli avrebbe parlato. Come recita il sottotitolo, sei valori, sei qualità della letteratura (una per conferenza) a lui molto cari, degni di essere conservati e, pertanto, contestualizzati nel millennio incipiente. Quasi un “a futura memoria”, un prezioso memento dall’eterna validità. Sei apologie che tuttavia non rinnegano i rispettivi antagonisti, senza i quali la loro esistenza non sarebbe.
Così Calvino parla della Leggerezza, la leggerezza della pensosità. Una leggerezza che “si associa con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso”. Una leggerezza perfettamente esemplificata da “Il faut être léger comme l’oiseau, et non comme la plume” di Paul Valéry.
Parla della Rapidità. La Rapidità dello stile e del pensiero che si traduce in agilità, immobilità e disinvoltura, “tutte qualità che si accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento all’altro, a perdere il filo cento volte e a ritrovarlo dopo cento giravolte”.
Parla dell’Esattezza, quella della definizione e del calcolo del disegno di un’opera, quella dell’evocazione di immagini visuali nitide, incisive e memorabili. Quella di un “linguaggio il più preciso possibile come lessico e come resa delle sfumature del pensiero e dell’immaginazione”. Quella di tutto quanto è “icastico”.
Parla della Visibilità, della capacità di coltivare la parte visuale dell’immaginazione.
Che fondamentale facoltà umana. Un “potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini (…) Un mezzo per raggiungere una conoscenza extraindividuale ed extrasoggettiva.”
Parla della Molteplicità, della vocazione “enciclopedica” del romanzo contemporaneo, come metodo di conoscenza, e soprattutto “come rete di connessione tra i fatti, tra le persone, tra le cose del mondo“.
E infine avrebbe parlato della Consistency ossia Sul cominciare e sul finire (dei romanzi) . Lezione questa desunta dai manoscritti preparatori a differenza delle altre, invece, dattiloscritte.
C’è sempre un inizio ed una fine…in un romanzo. Studiare le zone di confine dell’opera letteraria per Calvino significa “osservare i modi in cui l’operazione letteraria comporta riflessioni che vanno al di là della letteratura ma che solo la letteratura può ‘esprimere’”.
Sono momenti di distacco dalla molteplicità dei possibili, pur vivendo essa ora esternamente all’opera (ciò che viene prima e dopo), ma creandosi al suo interno.
È un viaggio metaletterario quello lasciato da Italo Calvino, un lascito che interseca lo scibile letterario di tutti i tempi sconfinando nella realtà, mediante la sua leggera, rapida, esatta, visibile, molteplice e consistente maestria.
“E così questo era stata la sua vita. Quale conclusione bisognava trarne? Bisognava forse trarne una conclusione? Quello che era giunto alla superficie di sé era inesorabilmente lui stesso. Nessun altro. Prendere o lasciare.
– Rosa, – pianse. – Rosa. Mamma. Drenka. Nikki. Roseanna. Yvonne.
– Ssst, pobrecito, ssst…
– Signore mie, se ho fatto un uso improprio della mia vita…
– No comprendo, pobrecito, – disse lei, e così lui tacque, perché neanche lui capiva bene. Era abbastanza sicuro che questo crollo emotivo fosse in gran parte una finzione. Il Teatro degli Indecenti di Sabbath.”
La vita di Mickey Sabbath, sessantacinque anni, burattinaio costretto a ritirarsi dalle scene a causa di un’artrite deformante alle mani, è una mise en place di aggettivi osceni che per tredici anni (“un legame di stupefacente impudicizia”) ha condiviso con la sua amante, Drenka Balich, una croata che a soli cinquantadue anni è scomparsa per un male incurabile. Da questo drammatico accadimento si susseguono, in un tempo che dal presente si dilata al passato, le scene e i siparietti di vita e di morte, di vivi e di fantasmi, di nostalgia e di prese di coscienza, di frequentazioni ora più di cimiteri che di postriboli, di tentativi di esplorare più l’al di là che gli anfratti pruriginosi dell’erotismo, narrati dalla voce del (più) anziano alter ego di Philip Roth – che con i suoi colleghi finzionali presenta numerose differenze – nonché da un oratore fuori scena. Il tutto tirato dai fili della prosa brillante, dissacrante e comica dell’autore americano che qui lambisce vette di vera poesia.
“Un pensiero su tre lo rivolgo alla mia tomba”, afferma Prospero ne La Tempesta di Shakespeare ad esergo de Il Teatro di Sabbath (Einaudi). Tutto, infatti, per Philip Roth ebbe inizio con la sua ricerca di un posto in cui farsi seppellire.
“Le bonheur n’est pas chose aisée: il est très difficile de le trouver en nous
et impossibile de le trouver ailleurs”
Chamfort