16 Marzo 2017

Il senso di una fine_Julian Barnes

 

“Leggo ancora parecchia storia e, va da sé, mi sono tenuto al corrente sui grandi eventi contemporanei alla mia vita: la caduta del Comunismo, la signora Thatcher, l’11 settembre, il riscaldamento globale. L’ho fatto con il normale miscuglio di ansia, paura e cauto ottimismo. Ma senza mai riuscire a considerarli con la stessa fiduciosa sicurezza con la quale guardo ai fatti di storia greca e romana, o dell’Impero britannico, o della Rivoluzione sovietica. Può darsi che mi senta più tranquillo con la storia sulla quale si è ormai grossomodo raggiunto un accordo. O forse si tratta ancora una volta del vecchio paradosso: la storia che ci succede sotto il naso dovrebbe essere per noi la più chiara, e invece risulta la più deliquescente. Viviamo nel tempo, il tempo ci definisce e ci vincola e dovrebbe anche essere misura della storia, no? Ma se non riusciamo a comprenderlo, se non ne afferriamo il mistero in termini di andamento e decorso, che speranze possiamo avere con la storia, perfino con il marginale frammento della nostra personale, peraltro assai poco documentata?”
La storia è inevitabilmente imperfetta e la memoria esercita un potente e invadente ascendente.
Anni Sessanta. Quattro amici. Colin, Alex, Adrian (il filosofo) e Tony (la voce narrante).
Pagine di formazione, poi un’assenza. Una scomparsa ragionata (perché l’essere pensante ha il dovere filosofico – ma anche il diritto – “di esaminare la natura dell’esistenza e le condizioni in cui essa si manifesta”).
Anni Novanta. Il tempo va a ritroso e la memoria compulsa dettagli e sfumature. Alla ricerca di un senso. Quello della fine.

Il senso di una fine (Einaudi)
Julian Barnes, Leicester 19 gennaio 1946.

“La storia è quella certezza che prende consistenza
là dove le imperfezioni della memoria incontrano le inadeguatezze della documentazione.”

 

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