«Scrivere è fede in una magia: che un aggettivo possa giungere dove non giunse, cercando la verità, la ragione;
o che un avverbio possa recuperare il segreto che si è sottratto a ogni indagine»
«Io ero, quell’inverno, in preda ad astratti furori. Non dirò quali, non di questo mi son messo a raccontare. Ma bisogna dica ch’erano astratti, non eroici, non vivi; furori, in qualche modo, per il genere umano perduto. Da molto tempo questo, ed ero col capo chino. Vedevo manifesti di giornali squillanti e chinavo il capo; vedevo amici, per un’ora, due ore, e stavo con loro senza dire una parola, chinavo il capo; e avevo una ragazza o moglie che mi aspettava ma neanche con lei dicevo una parola, anche con lei chinavo il capo. Pioveva intanto e passavano i giorni, i mesi, e io avevo le scarpe rotte, l’acqua che mi entrava nelle scarpe, e non vi era più altro che questo: pioggia, massacri sui manifesti dei giornali, e acqua nelle mie scarpe rotte, muti amici, la vita in me come un sordo sogno, e non speranza, quiete.
Questo era il terribile: la quiete nella non speranza. Credere il genere umano perduto e non aver febbre di fare qualcosa in contrario, voglia di perdermi, ad esempio, con lui»
Un viaggio fisico e interiore.
Agitandosi in un’umanità offesa e perduta,
quieta nell’assenza di azione.
Un viaggio onirico e allegorico,
che dura tre giorni,
da Nord a Sud, da Milano alla Sicilia.
I personaggi, reali, immaginari (?), parlano una lingua che l’epoca vuole criptica.
La guerra, la povertà, le ingiustizie, il fascismo. La storia, la cultura dogmatica, il ruolo dell’intellettuale.
La censura.
La possibilità di salvezza? Forse.
Ha un sapore amaro di consapevolezza universale.
L’edizione del 1986, per Rizzoli, del capolavoro di Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, porta le illustrazioni di Renato Guttuso.